Le innumerevoli vite di Stefano Cesari: il successo con la rock band De Corto, Bologna negli anni ‘80, il teatro, le poesie. E poi l’amore per moglie e figlie, i romanzi, la passione per le erbe officinali. Artista senza confini, factotum per necessità, laureato a 51 anni: l’incredibile storia di chi, giovanissimo, lasciò di sasso lo studio del Costanzo Show

Quante vite si attraversano in una sola esistenza? A poco più di 50 anni, Stefano Cesari ha perso il conto delle sue. Ci sono quelle sul palco, tra teatro e musica, e quelle fuori: da magazziniere e da poeta, da padre e da marito, da romanziere e da curatore di piante. I più lo conoscono come “Cecco” dei De Corto, rock band indipendente di Arezzo che raccolse consensi a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta, esibendosi in tutta Italia e pure all’estero. “Ma Cecco è morto”, annuncia sorridendo Stefano. I concerti, la protesta, il discreto successo. Era una vita fa, appunto.

Questa è una delle rare volte in cui anche l’intervistato pone domande all’intervistatore. Ne esce fuori una chiacchierata: tanto piacevole, quanto complicata da riassumere. Stefano parla, ma le pause sono altrettanto importanti. In quei momenti posa uno sguardo sulle cose e sui pensieri, interessato e al contempo distaccato, di serena comprensione. Ecco, la netta sensazione, con Stefano, è che poco contino formalità e superficie, ogni sua corda è tesa verso un’immersione che rifugge da banalità e luoghi comuni.

“Amo la parola scritta, più di ogni altra forma d’espressione. Ogni termine è importante, è un viaggio”. Una consapevolezza maturata con l’esperienza teatrale e quella del teatro itinerante. “Chi mi ha ispirato? John Osborne, Samuel Becket, Eugène Ionesco”. Ma in fondo, con Stefano, i confini dell’arte si fanno labili, perché teatrale era sul palco con i De Corto, dove agiva quasi da narratore. E un geniale coupe-de-theatre lo sfoderò quando, giovanissimo, Maurizio Costanzo lo chiamò al Costanzo show, in una serata con Dario Fo e Gene Gnocchi. Lesse una delle sue poesie, chiudendola con un urlo che ghiacciò i presenti del salotto buono della tv. Un episodio che ancora lo fa sorridere: “Non penso di essere stato compreso, ma io ottenni quel che volevo”.

Con l’arte però, Stefano, ha mangiato poco. E forse, rimanendone distaccato, senza doverne fare una professione, senza vederci per forza uno scopo, il suo sguardo è rimasto lucido. Più obiettivo. Più vero. Senza compromessi. Fare arte per l’arte.

Conoscente di Freak Antoni, fondatore degli Skiantos, e amico dello scrittore Marcello Fois, ha frequentato la Bologna degli Ottanta, un laboratorio di arte, pensiero laterale e sovversione. Con i De Corto, “band di quartiere” nata a San Lorentino, è arrivato fino in Russia a suonare. All’epoca, ad Arezzo, i De Corto mossero i primi passi assieme agli Inudibili, che poi sfondarono come Negrita. Ma mentre la band di Cesari si fermava nei Novanta, i Negrita salirono in rampa di lancio. Gruppi amici e non rivali, Cesari comparve nel primo video di Pau e soci.

E così, ineluttabile, giunse la “morte” di Cecco. “Arriva sempre un punto in cui dobbiamo crescere, evolverci”. E se un ruolo determinante nella metamorfosi l’hanno avuta gli autori-faro (“Italo Calvino su tutti”), innegabile è stato quello della moglie Simona. “E’ stata lei che mi ha aiutato a guardarmi dentro e a far chiarezza”. Da quell’unione sono nate le due figlie.

E per Stefano, se il “negotium” è stato quello di imbianchino, commesso, addetto agli imballaggi, l’arte è sempre stata relegata al ruolo di “otium”, nell’accezione latina del termine, ovvero quel riposo dall’attività fisica che permette l’espressione di qualità morali e d’intelletto. Ci sono state le poesie, raccolte e date alle stampe grazie al mecenatismo di Mario Defilippis, compianto proprietario del ristorante La buca di San Francesco. C’è stata la laurea a 51 anni in scienze della formazione e dell’educazione (“E’ stato divertente e stimolante. Quando andavo a scuola, invece, trovavo l’impostazione dei professori estremamente banale”). E adesso ci sono i romanzi. “Ne ho già scritti cinque, ma l’ultimo è l’unico davvero compiuto. Lo presenterò al premio Italo Calvino”.

Sullo sfondo resta sempre Arezzo, quella terra “in cui c’è un vuoto e che in tanti tentano di riempire. Per questo qui nascono così tante menti brillanti”. E, infine, c’è un futuro legato alla terra: assieme alla moglie, Stefano ha piantato oltre mille piante officinali, da cui ricavare olii ed essenze per la cura personale.

Mantenendo sempre l’occhio attento e comprensivo sul mondo perché “le cose di ogni giorno raccontano segreti a chi le sa guardare e ascoltare”, dice citando Gianni Rodari.