Francesco Graziani dagli esordi complicati con l’Arezzo (âStavo per mollare, mia madre mi rimise sul treno per la Toscanaâ) allâexploit.
Poi lo scudetto, la Coppa del Mondo, una puntata in Australia e il ritorno in amaranto come presidente: âSĂŹ, mi sono buttato anche in politica, ma non avrei mai fatto il senatore. Con mia moglie Susanna un amore che dura da quasi cinquant’anni: per conquistarla ho fatto lo stopperâ
“Ero ad Arezzo da un mese e mezzo, mâera presa nostalgia di casa. Mi mancavano i miei genitori, il paese, gli amici. Avevo 16 anni, giocavo a pallone e dormivo da Cecco in Corso Italia. Ero solo in una cittĂ che non conoscevo. Presi il treno e tornai a Subiaco, per restarci. Fu mia madre a farmi ragionare: âChe fai? – mi disse – Vuoi buttare via lâopportunitĂ della tua vita?â. Ed era vero, Arezzo è stata la mia grande chance. Mia mamma mi convinse a restare. Per fortuna sono risalito su quel trenoâ. ChissĂ , per un talento enorme come quello di Francesco âCiccioâ Graziani magari di treni ne sarebbero passati ancora molti. Di certo, aver superato lâasticella di quella crisi adolescenziale fu il potente acceleratore di una carriera in bocciolo. Divenuta poi straordinaria.
Settanta anni da poco festeggiati, è seduto al tavolo del bar del club sportivo Occhi Verdi che gestisce con la compagna di una vita, la moglie Susanna. âLâho vista e mi sono innamorato: lâho marcata stretta finchĂŠ non siamo usciti insiemeâ. Volge uno sguardo al passato con la battuta sempre in canna. Lo scudetto col Toro, il titolo di capocannoniere, il Mundial dellâ82, le due Coppe Italia alzate con la Roma. E poi: la presidenza dellâArezzo dopo il fallimento, preso dalla D e riportato in C1 in un quinquennio, lâavventura elettorale del â94, la nuova popolaritĂ degli anni 2000 con Campioni Il Sogno, la tv con le giacche sgargianti.
Per stabilirsi, dopo una carriera in giro per lâItalia (con esotico epilogo australiano), ha scelto Arezzo. E oggi continua a vivere di calcio, come opinionista e come insegnante per giocatori in erba. Da dietro gli occhiali scuri, con estrosa lente a ottagono, rievoca con immutata serenitĂ gloriose vittorie e sonore cadute, come il rigore fallito in finale di Coppa Campioni (ââŚEâ una cicatriceâŚâ). E immagina il futuro: âA me questi 70 anni piacciono. Mi sento in forma, gioco a calcetto. A questo punto, tanto che ci sono, vorrei vedere anche come sono gli 80, a Dio piacendoâ, dice col sorriso.
Come mai scelse di giocare ad Arezzo?
âAvevo giĂ fatto provini con Lazio, Roma, Juve. Ero con il Bettini Quadraro, societĂ della capitale. Câera un torneo giovanile. Ero stato segnalato allâArezzo: vennero a vedermi Azelio Rachini, Tonino Duranti e Guerrino Zampolin. Li convinsi. Lasciai il mio paese e mi trasferiiâ.
I primi tempi in Toscana non furono facili.
âEh no, ma poi mia mamma mi fece riflettere. Quando tornai in treno dopo la fuga, iniziai ad apprezzare Arezzo. Tranquilla e vivibile. Dopo i primi tempi in albergo, abitai in via Porta Buia, con altri ragazzi delle giovanili. Mangiavamo da Tonino Duranti, il nostro allenatore che aveva un ristorante. Scoprii una nuova famiglia: feci amicizia con i miei compagni, come Menchino Neri o Claudio Giulianini. Mi adattai talmente bene che poi mia mamma mi disse: âSei passato dal voler tornare a casa, a non farti piĂš sentireâ. Stavo beneâ.
E anche in campo le cose andavano alla grande.
âFeci parte della squadra giovanile dellâArezzo forse piĂš forte di sempre. Arrivammo a un passo dalle finali nazionali. Giocavo in attacco, mi impegnavo. Avevo fame e non volevo deludere le aspettative. Il secondo anno collezionai due presenze in prima squadra, dodici il terzo e feci anche i miei primi gol in Serie B. Il quarto anno diventai titolare dellâArezzoâ.
Quando arrivò la grande chiamata della A?
âA metĂ di quella stagione, la â72-73. Me lo ricordo come fosse ieri: il presidente Luigi Montaini mi chiamò nel suo ufficio e mi disse: âTi ha acquistato il Torinoâ. Mi passò per la testa il ricordo di me bambino, di quando immaginavo quanto sarebbe stato bello un giorno giocare in Serie A. Non stavo nella pelle. Continuai a giocare ad Arezzo fino alla fine della stagione, con impegno ancora maggiore. Sentivo la responsabilitĂ â.
“Quando sono diventato titolare in b con l’Arezzo mi sono detto: ma allora posso davvero fare il calciatore”
Câè stato un momento in cui si disse: âEcco, ce lâho fattaâ.
âAncora mi risuonano in testa le parole che mi disse allora lâallenatore dellâArezzo, Dino Ballacci: âGuarda Francesco, arrivare è facile. Difficile è mantenersi a grandi livelliâ. Non lâho mai dimenticato. E cosĂŹ ho lottato per ogni nuovo traguardo. Certo, mi sono goduto ogni momento di successo. Quando sono diventato titolare in B con lâArezzo mi sono detto: âMamma mia! Ma allora posso fare davvero il calciatore. Magari anche giocare in Serie Aâ. Ma è stata una conquista continua. Se dovessi scegliere un solo momento, però, direi la prima convocazione in Nazionaleâ.
Come è stata?
âNon giocai la partita, ma quella chiamata fu un brivido. Era il 1974. Câera Ferruccio Valcareggi alla guida dellâItalia. Le convocazioni venivano diramate e informati i club di appartenenza dei giocatori. Ricordo benissimo lâannuncio scandito da Giuseppe Bonetto, storico direttore generale del Torinoâ.
Come fu lâimpatto con Torino?
âStraordinario. PiĂš di tutto, fui colpito dalla gente. Dai tifosi granata. Lâaffetto che ho ricevuto è stato incredibile e lâho ricambiato, non poteva essere altrimenti. Non so come spiegarlo: quando arrivi al Toro, respiri la storia del calcio. Una storia densa, fatta di successi esaltanti e lutti dolorosissimi: Superga, Gigi Meroni. Quella tifoseria vive per il Torino e tu devi mettercela tutta. Avverti proprio quel senso di appartenenzaâ.
Si ricorda un episodio in particolare?
âEra la stagione â75-â76. Ci allenavamo al mitico Filadelfia. Eravamo primi in classifica. Un signore veniva sempre a vederci e mi fermò: âRiusciamo a vincerlo questo campionato?â. Io gli dissi: âVedrai ti daremo una bella soddisfazioneâ. Lo rividi il giorno dello scudetto: era il primo titolo dai tempi del Grande Torino. Piangeva. E mi disse: âGrazie. Adesso posso anche morire tranquilloâ. Ecco, questo è il livello della passione che ho trovato lĂŹ. Qualcosa fuori dal comuneâ.
Lo scudetto del â76 col Toro o il titolo Mondiale? Quale successo ha rappresentato la soddisfazione piĂš grossa?
âPosso essere sincero? Il titolo di capocannoniere della Serie A. Eâ vero, è un premio personale, ma lo ottenni grazie a tutta la squadra. Con Paolo Pulici formavamo una coppia dâattacco assortita benissimo e poi câera Claudio Sala che ci ispirava. Lâanno prima il titolo andò a Pulici, poi lo vinsi io. Allâepoca si chiamava premio Chevron, andava al giocatore con la miglior media realizzativa. Fu una gioia molto intensa. A quel punto capii di essere entrato nella categoria dei piĂš grandi. Ma voglio specificare: una punta deve essere egoista nella misura in cui le sue scelte non vanno a scapito della squadra. Ecco, spero di essere stato, in questo senso, un grande attaccanteâ.
Come si gestisce tutto questo successo a poco piĂš di 20 anni?
âPer me non è stato difficile. Ero giĂ sposato, coi piedi per terra. Ma capivo che il mio mondo era cambiato. I riconoscimenti, le interviste. Mi faceva piacere rivedere il mio paese allâapice della carriera. Tornavo saltuariamente, dati gli impegni. Ma ogni volta i miei concittadini mi facevano sentire un principe. Percepivo lâorgoglio dei miei genitori, era belloâ.
La consacrazione câera giĂ stata. Ma non tutti i grandi calciatori poi diventano campioni del mondo. Quale sensazione si prova ad alzare quella coppa?
âFaccio un passo indietro per contestualizzare quella vittoria. Io ero nel giro della Nazionale da un poâ, avevo partecipato ai Mondiali del â78 in Argentina. GiĂ questo era motivo di soddisfazione. Certo, non ero titolare, quindi vissi la spedizione con un poâ di distacco. Ma lâItalia era una grande squadra, con giocatori importanti. E lo confermò anche allâEuropeo dellâ80, anche se pure in quella circostanza finimmo quarti. A livello di club ero passato alla Fiorentina. E nel 1982 fui convocato di nuovo per il Mondiale spagnolo. Ero in stanza col mio compagno in viola Giancarlo Antognoni. Giocammo titolari tutto il torneo: una cavalcata straordinaria. In semifinale con la Polonia Giancarlo si infortunò. E in finale con la Germania Ovest toccò a me, giocai appena 8 minuti, poi mi feci male alla spalla. Quella stanza era proprio stregata. Ma al triplice fischio sparĂŹ ogni amarezza: âSe sorride Giancarlo, posso farlo anchâioâ. Con la Coppa in mano pensai: âPosso smettere di sognare adesso, abbiamo vinto, è realtĂ â. Ricordo che è subentrato un senso di soddisfazione nuovo: non câera altro di piĂš importante da vincere e lâavevo fatto. Eâ stato davvero il culmine di un grande percorsoâ.
La delusione piĂš grande, immagino, fu la finale di Coppa Campioni dellâ84.
âOvviamente. Ero passato dalla Fiorentina alla Roma nellâ83. E al termine della stagione arrivammo in finale contro il Liverpool. Giocavamo allâOlimpico, che serata. Perdemmo ai rigori. Sbagliò Bruno Conti. E poi sbagliai io. Il mio primo pensiero fu per le persone che erano lĂŹ, per la delusione che avevamo dato loro. Fu un dolore enorme, lo è ancora. Eâ una ferita che non si rimargina del tutto. Solo mettendo un poâ di tempo tra te e quel momento puoi riviverlo con un poâ di serenitĂ . Lâunica fortuna per noi fu che vincemmo la Coppa Italia contro il Verona poco dopo. Quando alzammo quel trofeo, fummo un poâ alleggeritiâ.
Unâaltra Coppa Italia con la Roma, due anni con lâUdinese, poi lâAustralia. PerchĂŠ?
âEh sĂŹ. A Sidney avevo un amico fraterno, che mi diceva sempre di andarlo a trovare. Ma quando ero libero io, dâestate, lĂŹ era inverno. E quindi ho rimandato sempre. Che vado in Australia a sentire freddo? CosĂŹ a fine carriera mi sono deciso e sono partito. Ho fatto un bel viaggio. Ho giocato tre partite con lâApia, club piĂš importante della cittĂ assieme al Marconi, e poi stop. Sono tornato a Sidney con mia moglie, ma solo in vacanza. Insistettero perchĂŠ rimanessi lĂŹ a giocare per unâintera stagione. Ma dissi di no. Ci abbiamo anche pensato con Susanna, potevamo trasferirci: sarebbe stato un poâ folle con i figli piccoli. Quindi abbiamo deciso di rimanere ad Arezzoâ.
La casa ad Arezzo: una scelta di vita.
âAvevamo scelto questa cittĂ quando mi acquistò la Fiorentina. Prima vivevamo a Torino. Le ipotesi erano: o trasferirsi a Firenze oppure ad Arezzo, dove câerano la famiglia di Susanna e un ambiente sereno. Vinse Arezzo, una cittĂ a misura dâuomo. Qui ho trovato simpatia e grande rispettoâ.
La sua vita è stata sempre al fianco di Susanna.
âQuando la sposai non era maggiorenne, suo padre dovette firmare i documenti. Era bellissima. Il colpo di fulmine scattò un giorno di settembre, a fine Giostra. Ero per il Corso e la vidi passare. Cercai di attaccare bottone, ma niente. Le feci la posta: la ritrovai dopo qualche giorno, con le sue amiche. Le chiesi di accompagnarla fino a casa ma mi ignorò. E cosĂŹ una terza volta. Alla fine ricordo che mi disse: âVa bene, mi puoi accompagnare. Sennò domani mi rompi le scatole unâaltra voltaââ.
Per una volta marcò da stopper.
âSĂŹ, sĂŹ. Alla Sergio Brio. Uscivamo insieme al King o al Principe. La sposai che aveva 17 anni, io 21. La celebrazione si tenne al santuario di Santa Maria delle Grazie nel â74. Da allora siamo sempre insiemeâ.
Terminata la carriera di calciatore è iniziata quella da allenatore. Guidò Fiorentina, Ascoli, Reggina, Avellino. Poi diventò presidente dellâArezzo, nel momento piĂš buio per gli amaranto. Chi la convinse?
âDopo il fallimento alcuni amici mi coinvolsero nel rilancio dellâArezzo. Bisognava ripartire dalla D. Io ero combattuto, avevo speso una parola con il Verona. Alla fine dissi di sĂŹ: volevo restituire qualcosa a una squadra che mi aveva dato tanto. Non fu facile. Ci volevano tanti soldi e ce ne misi anche di personali. Câerano amici orafi che mi diedero una mano. Ci furono incidenti di percorso, episodi che non mi sono piaciuti. Ma alla fine, grazie al sostegno di tante persone riuscimmo a riportare lâArezzo lĂŹ dove stava prima di fallire: in C1. Fu una cavalcata incredibile, con due promozioni. Ero partito per dare una mano, sono rimasto cinque anni. Ma a quel punto non me ne sarei andato prima di aver completato il percorso che mi ero prefissato. Quando la squadra guidata da Serse Cosmi vinse a Pistoia, con migliaia di aretini al seguito, mi dissi: âCe lâabbiamo fatta, finalmenteââ.
“Nel 1994 Berlusconi insistette per candidarmi alle politiche. Per un soffio non entrai in parlamento ma al seggio avrei comunque rinunciato”
Intanto nel 1994 aveva provato anche lâebbrezza di una campagna elettorale. Come andò?
âIo non volevo candidarmi, ma Berlusconi insistette. Mi chiamò prima Ariedo Braida, poi Adriano Galliani, quindi vidi Berlusconi in persona, ad Arcore. Dovevo correre con Forza Italia. Dissi: âGuardi dottore che qui è zona rossa, non si passaâ. E lui mi disse: âSe prendi almeno 12mila voti, va piĂš che beneâ. Ero combattuto. Lui voleva gente che non avesse mai fatto politica. Mi disse: âDevi farmi un favoreâ. Alla fine cedetti. Oh, presi 27mila voti e per un soffio non entrai in Parlamento. In ogni caso, avrei rinunciato al seggio. Ma mi ci vedete a fare il senatore? Comunque mi chiamò Antonio Martino, futuro ministro, per farmi i complimentiâ.
Poi è iniziata una proficua collaborazione con Mediaset.
âMa senza che io chiedessi niente a Berlusconiâ.
Il successo di Campioni Il Sogno è stato notevole: un reality che seguÏ le sorti del Cervia in Eccellenza e in D per due stagioni, dal 2004 al 2006. Ciccio Graziani come allenatore.
âUno show che precorreva i tempi. Basti pensare alle telecamere di Sky, oggi, negli spogliatoi di serie A. Noi le avevamo venti anni fa le telecamere nello spogliatoio. E non sapevo mai se erano spente o accese. Ero spontaneo. Solo, non dovevo esagerare. Non dovevo bestemmiare, ma non câera problema perchĂŠ io sono molto credente. Quindi il personaggio che è emerso dallo show era autentico. SĂŹ certo, qualche scena era un poâ costruita. Ma allâ80% erano riprese di allenamenti reali. E credo che la spontaneitĂ sia stata una chiave del successo del programma. Mi chiamavano allenatori di Serie A, Novellino, Spalletti, perchĂŠ i giocatori delle loro squadre si erano appassionati alle sorti del Cerviaâ.
Recentemente sono scomparsi grandi figure che hanno fatto la storia del calcio come SiniĹĄa MihajloviÄ, Gianluca Vialli. Senza dimenticare Pelè. A questa terra era molto legato Paolo Rossi, con cui ha condiviso lâavventura Mundial, e che aveva scelto, come lei di vivere nellâAretino. Anche Paolo se ne è andato prematuramente. Un ricordo?
âAbbiamo condiviso la fase offensiva di quella Nazionale. Ero molto legato a lui. Era una persona solare, ti regalava sempre un sorriso. MihajloviÄ non lo conoscevo bene, ma avevo per lui una simpatia a pelle, ricambiata, oltretutto. Abbiamo avuto modo di dircelo in tv. E poi quando allenava la Fiorentina mi invitava a vedere gli allenamenti, mi diceva: âVieni, è casa tuaâ. Ho avuto la fortuna di incontrare PelĂŠ, persona di una umiltĂ e unâintelligenza eccezionale. Di Vialli invece posso raccontare un aneddoto: non lo conoscevo granchĂŠ, ma, circa venti anni fa, mi trovavo a Londra con amici per una vacanza. Lui abitava lĂŹ, si era appena ritirato dal calcio dopo lâesperienza al Chelsea. Io e i miei amici volevano andare a vedere Chelsea-Charlton che si giocava quel giorno, ma non riuscivamo a trovare i biglietti. Con i Blues câerano Zola e Casiraghi. Chiamai il mio amico Ciro Ferrara, se mi poteva aiutare e mi dette il numero di Gianluca Vialli. Fu gentilissimo. Parlò con la societĂ : la dirigenza del Chelsea fu entusiasta di avermi allo stadio. Non mi sarei mai immaginato tanto affetto. Per quanto riguarda Vialli, si dimostrò un ragazzo dâoroâ.
“Ho 70 anni, mi sento bene, spero di arrivare a 80 e poi chissĂ …ho avuto molto dalla vita e quando Dio mi chiamerĂ non dirò di no”
Cosa immagina Francesco Graziani per il suo futuro?
âMi sento bene, ho molte cose da fare ancora. Ma non mi illudo, ormai penso di essere verso il tramonto della mia vita. Se penso a Vialli, a MihajloviÄ, dico che queste persone ci hanno lasciato un grande insegnamento: come affrontare la malattia e poi la morte. Con consapevolezza. Anche se fa paura. Eâ unâultima partita, va gestita. Puoi temporeggiare per un poâ ma a un certo punto tutti devono fare i conti con la fine. Io sono molto credente, lâho giĂ detto. Non dico che non ho timore e spero ovviamente di tagliare nuovi traguardi: oggi che ho 70 anni, mi auguro di arrivare a 80, e poi chissĂ . Intanto penso di essere stato una persona fortunata, ho avuto molto e quel che ho avuto è per merito di Dio. Quando un giorno mi chiamerĂ , non dirò di noâ.