Una costruzione due/trecentesca lungo la collina di San Fabiano. Dalla fine dell’Ottocento ha conquistato un ruolo centrale nei racconti popolari perché utilizzata come nascondiglio dal noto brigante Federigo Bobini, un bandito dedito al crimine ma con l’animo nobile. Oggi la torre continua ad alimentare aneddoti e fantasie.

Gli aretini conoscono la collina di San Fabiano come una delle zone più belle ed esclusive del territorio comunale: la “piccola Fiesole”, come la chiamò Angelo Tafi in uno dei suoi numerosi libri su Arezzo.

Costeggiando gli archi dell’Acquedotto Vasariano, se invece di proseguire il percorso collinare imbocchiamo la strada bianca dei Cappuccini, ci troviamo di fronte a una singolare torre due-trecentesca di cui ancora oggi si sa ben poco.

Chi ha provato in passato a dare un senso alla sua collocazione inusuale, ha ipotizzato che fosse una costruzione di avvistamento, esterna ma comunque facente parte del sistema difensivo medievale cittadino. Altri hanno supposto che fosse una torre daziaria per chi giungeva con le proprie merci ad Arezzo, passando per la cosiddetta via di Pietramala.

Più di recente Simone De Fraja, apprezzato studioso di fortificazioni, l’ha indicata come possibile struttura di sorveglianza del territorio agricolo alle pendici di San Fabiano.

Dopo aver perso la funzione originaria, la torre rimase al suo posto nei secoli a seguire, attraversando miracolosamente gli eventi e soprattutto la mano dell’uomo, che tutto fa e disfa.

Se osserviamo ad esempio la Pianta del condotto vasariano di Arezzo e della Fonte della Piazza, che di recente ha trovato la sua giusta collocazione nel Palazzo della Fraternita dei Laici di Piazza Grande, eseguita nel 1696 dal cartografo e impresario edile Giovan Battista Girelli, vediamo la costruzione evidenziata oltre le arcate dell’acquedotto.

Dalla fine dell’Ottocento le fu dato anche un nome. In gergo popolare divenne infatti la Torre di Gnicche, poiché secondo la tradizione era stata uno dei nascondigli del noto brigante.

Federigo Bobini – questo il nome di battesimo – era nato il 19 giugno 1845 e fin da giovanissimo fu uno scavezzacollo. Venne accusato di omicidi, furti, violenze ed episodi vari di microcriminalità. Le sue “imprese” si conclusero il 14 marzo 1871, quando fu arrestato dai carabinieri in un casolare tra Badia al Pino e Tegoleto. Durante il tragitto a piedi verso la caserma, tentò la fuga e così si beccò una pallottola letale all’altezza dei reni.

La morte drammatica fece crescere la sua fama e la memoria romanzata ci ha tramandato la figura di un bandito garbato con le donne, amante dei bei vestiti, delle carte e del ballo, spavaldo con le forze dell’ordine. Pare addirittura che in alcune occasioni si fosse comportato da “Robin Hood de noialtri”, donando parte delle refurtive ai meno fortunati. Le feste contadine divennero l’occasione per i cantastorie di narrarne le gesta e alimentare le leggende arrivate fino a noi.

Il recente volume Sopracchiamato Gnicche (Fuori|onda libri), scritto da Enzo Gradassi, attraverso gli atti giudiziari e le ricerche d’archivio ha messo le cose a posto dopo un secolo e mezzo, restituendo alle gesta di Federigo Bobini una dimensione più veritiera e meno colorita.

Ciononostante, dubitiamo che in futuro il brigante aretino non continui ad alimentare racconti fantasiosi e che i suoi luoghi simbolo, in primis la torre, non rimangano tappe irrinunciabili di itinerari dedicati, perché come diceva Romano Battaglia: l’uomo ha bisogno delle favole.