Uno che prende e dà cazzotti per sport, lo immaginiamo spaccone, esuberante, con lo sguardo cattivo e il gusto di menare le mani. Orlando Fiordigiglio è l’esatto contrario, poco social e molto antidivo. Quando non si allena, lavora all’Enel (o forse è il contrario). Aretino d’adozione, racconta la sua boxe, la sua famiglia, la sua vita. E il sogno di conquistare il titolo europeo

“Il ring è uno specchio. Se sei un uomo, si vede. Se sei un codardo, si vede’’. Via Buonconte da Montefeltro, accademia pugilistica aretina, tardo pomeriggio di metà aprile. Orlando Fiordigiglio racconta la sua boxe, la sua famiglia, la sua vita, che poi sono una cosa sola. Napoletano di Torre del Greco, aretino d’adozione, poco social e molto antidivo, è testimonial della onlus “Gli occhi della speranza”, ha quasi 34 anni, una compagna, un figlio di diciotto mesi e un carattere che mai lo assoceresti a un pugile. Perché forse è uno stereotipo fuorviante e abusato, ma se pensi a uno che prende e dà cazzotti per sport, te lo immagini spaccone, esuberante, con lo sguardo cattivo e il gusto di menare le mani. Lui no. Lui è l’esatto opposto.

“Ho fatto a pugni per la strada soltanto una volta in vita mia. Avrò avuto 16 o 17 anni, ero appena uscito dalla discoteca con i miei amici. Poi non è più successo”.

Mai mai?

Mai. Chi fa boxe, non picchia. Una volta il grande Marvin Hagler incontrò un gruppetto di persone che cominciò a insultarlo. Non reagì. “Mi allontano dall’ignoranza” spiegò poi. La boxe è autocontrollo.

Non a caso era soprannominato “il meraviglioso”.

E’ stato il mio modello. Lui diceva: “sono un pugile da quando mi sveglio a quando vado a dormire. Cerco solo di nasconderlo”.

Il pugilato è ancora la noble art di una volta? Oppure parliamo di un’altra epoca e di un altro sport?

E’ ancora un’arte nobile. A parte quando girano troppi soldi. E oggi succede spesso.

Qual è il fascino di prendere e dare cazzotti?

La sfida con te stesso. Inquadrare un obiettivo e raggiungerlo. Misurarti con le difficoltà. Questo non è uno sport di squadra dove puoi trovare l’alibi o scaricare le responsabilità su qualcun altro. Qui vittoria e sconfitta dipendono da te.

Hai praticato sport di squadra tu?

Da ragazzino giocavo a calcio. Facevo il terzino d’assalto.

Sei nato in Campania ma abiti qua da quando eri piccolo. Ti senti napoletano, aretino o una via di mezzo?

Io non mi abbatto, ho grande spirito di sacrificio, mi piace la generosità. In questo credo di essere napoletano. Tutto il resto è aretinità.

Com’è Arezzo vista da uno che ci vive ma che non ci è nato?

Una sintesi perfetta tra sud e nord. Per il cibo, per il clima, per la qualità della vita.

E poi?

Una città dove è difficile emergere, ma nessuno è profeta in patria. Arezzo ormai è casa mia. Mi manca soltanto un quartiere da tifare alla Giostra.

Non dirmi che il Saracino non ti piace…

Mi piace moltissimo, vado in piazza tutti gli anni. Però non parteggio per nessuno, anche se abito a Porta del Foro e quindi un po’ giallocremisi mi sento.

C’è un angolo di Arezzo dove ti rifugi, che ti piace visitare, che ti ispira buoni sentimenti?

La Pieve e tutta la zona alta del centro storico. Lì ci vado spesso.

Tu sei un pugile professionista che ha conquistato titoli internazionali, ma lavori come dipendente all’Enel. Mi spieghi com’è possibile?

Ho pensato spesso di dedicarmi soltanto alla boxe, ma il posto fisso mi dà la tranquillità economica per allenarmi come voglio io. Finché reggo, faccio entrambe le cose.

E’ una faticaccia, immagino.

Vuoi la mia giornata tipo? La mattina sono all’Enel a Montevarchi. In pausa pranzo mi alleno. Lavoro di nuovo, stacco alle 16.30 per la merenda, poi palestra fino alle 20.30. Una volta alla settimana faccio i guanti a Firenze, due volte alla settimana a Ravenna.

Questo tutto l’anno?

Sì. Fino a un po’ di tempo fa, con l’Enel avevo anche la reperibilità notturna. Se c’era qualche guasto, mi chiamavano e dovevo uscire. Adesso la notte dormo, per fortuna.

Ti servirà un mental coach, Orlando.

Non ho tempo… Le energie mentali le trovo fissando l’obiettivo nella mia testa. E vado avanti.

Giulia, la tua compagna, cosa pensa di questa tua vita che gira intorno al ring? E’ gelosa, scontenta?

No. Mi capisce. Mi aiuta. Mi dà sostegno. Forse perché l’ho conosciuta proprio in palestra.

Addirittura.

Sì, venne a fare boxe per un periodo. Mi chiese: “Ma tu dove sei stato finora che in giro non ti ho mai visto?”. Eppure abitavamo a poca distanza.

Dov’eri stato Orlando?

In palestra ad allenarmi e ad allenare i ragazzi. Mi piace moltissimo e cerco di trasmettere sentimenti oltre che consigli tecnici.

Ci riesci? O gli adolescenti di oggi sono troppo complicati da coinvolgere?

Finora ci sono riuscito. Questa palestra ospita anche giovani con difficoltà sociali, che hanno sbagliato nella vita e devono recuperare. Qua dentro siamo una famiglia e non è un modo di dire, è la verità.

Tu sei sempre stato generoso, altruista per indole o sei diventato quello che sei un passo alla volta?

La filosofia di lavoro della palestra l’ho ereditata e non posso non citare il mio presidente Aldo Sassoli, un esempio. Poi ci ho messo del mio perché io sono così.

Hai una storia da raccontare che ti è rimasta nel cuore?

Ne avrei tante, credimi. Penso a Ibrahim, un ragazzo kosovaro di 18 anni. Viveva in povertà, non vedeva i suoi genitori da non so quanto tempo. La comunità Don Bosco lo ha mandato da noi. Ho scoperto una persona buona, di cuore, che ha ripreso a studiare e si è dedicato alla boxe con passione. Ha vinto nove incontri su undici, è riuscito a tornare a casa per salutare la sua famiglia. Noi adesso lo chiamiamo Fortunato.

Quanti ce ne sono di ragazzi così che passano da qui?

Abbastanza. Io sono felice, la palestra crea l’uomo prima del pugile. Vedi quel cartello lì al muro?

C’è scritto “devi ridere”.

Quando qualcuno comincia a lamentarsi, a mugugnare, gli dico di rileggerlo cento volte.

Pure quando prende un gancio in pieno viso…

Certo. Il pugilato è anche fare a pugni. Ma non solo. Io a 14 anni mi vergognavo perfino della mia anima, ero timido, cicciottello, insicuro. La palestra, l’allenamento mi sono serviti per affrontare la vita.

Se Giovanni, tuo figlio, tra qualche anno ti dicesse che vuole fare il pugile, ne saresti felice?

Penso a questa cosa ogni giorno. Non gli direi di no, da una parte mi farebbe contento. Dall’altra sarei molto preoccupato: vado in ansia quando combatte qualcuno della palestra, figuriamoci se ci fosse Giovanni.

Tu credi in Dio?

Sì, la fede è una risorsa da cui attingo quotidianamente. E a proposito di quello di cui parlavomo prima…

Cosa?

Don Alvaro, il parroco del Duomo, è il mio mental coach. Sa sempre cosa dirmi, come dirmelo e quando.

E’ vero che sei troppo corretto sul ring?

E’ un appunto che mi muovono in molti. E forse hanno pure ragione, ma non cambio.

Rocky Balboa era legatissimo a Mickey Goldmill, il suo allenatore. Tu hai qualcuno che ti ha insegnato a boxare?

Paolo Calamati. E’ stato il mio punto di riferimento per tanti anni. Quando è morto, ha lasciato un vuoto grandissimo. Era il mio Mickey, veramente.

E’ stato il momento peggiore per te?

No, perché la determinazione ad andare avanti raddoppiò. Ho temuto di smettere quando è morta mia zia, aveva solo 47 anni. Mi accorgevo di non essere quello di prima, stavo mollando. Io sono la colonna portante della mia famiglia, tutto ruota attorno a me e ne sentivo il peso. Poi la sognai una volta, mi diceva di continuare. E ripresi coraggio.

I pugili, solitamente, fanno gli sbruffoni, parlano tanto. Tu no. E’ veramente un pregio o dovresti essere più sfrontato?

A me la boxe tranquillizza, pensa un po’. E poi è il mio carattere. Ho una collezione vastissima di berretti e cappellini ma non li metto mai. Ostentare non mi piace, non è nelle mie corde.

Cosa c’è nel tuo futuro?

Voglio il titolo europeo, voglio portare in alto il nome mio e di Arezzo. Due volte ci sono andato vicino e non ce l’ho fatta. Alla terza sarebbe diverso, me lo sento.