Un’avventura di due anni, senza una meta, a caccia di brividi sulla pelle, con un paio di valigie e il cuore in mano. Simone Piccini è partito da Arezzo il 3 maggio 2016 e ad Arezzo è tornato il 3 maggio 2018, dopo aver attraversato cinque continenti. Ha riportato a casa migliaia di foto, ricordi, qualche tatuaggio, uno spirito nuovo, una fidanzata di Bogotà. E la certezza che d’impossibile non c’è niente. “La mia non è stata una fuga, mi sono regalato un sogno”

Invidia. Pensi a quello che ha combinato Simone Piccini e non c’è altro sentimento se non l’invidia. Ha preso la sua vita, l’ha sradicata da terra e se l’è messa sotto braccio. Poi è partito per un viaggio lungo due anni. Sono tanti due anni, sono un’eternità. E se in giro per il mondo vai da solo, senza una meta, a caccia di brividi sulla pelle, sembrano ancora di più. Chi non ha pensato mai, di prendere e andarsene? Con due valigie e il cuore in mano. Ci abbiamo pensato tutti, lui l’ha fatto veramente. È salito su un treno il 3 maggio 2016 ed è tornato, sempre in treno, il 3 maggio 2018. Ha riportato a casa migliaia di foto, ricordi, qualche tatuaggio, uno spirito nuovo, una fidanzata di Bogotà. E la certezza che d’impossibile non c’è niente.

Il primo compleanno l’ho festeggiato in Giappone dentro un karaoke. Il secondo in Colombia facendo parapendio.

Cos’è stata la tua: una fuga?

Io non sono scappato, mi sono regalato un sogno. Stavo facendo cose che non mi davano soddisfazione, non vivevo i miei giorni, andavo solo avanti. E perdevo tempo.

Avevi un lavoro stabile, una famiglia, una macchina. Cos’è che ti mancava?

Sentirmi in pace con me stesso. Non ho mai comprato casa, sono stato quindici anni in affitto. Dentro di me sapevo che un giorno sarei partito ed è successo. Sono andato dalla mia capoufficio e le ho detto: ”basta, mi licenzio”. Avevo tutto chiaro in testa.

Chi hai lasciato a casa?

Il gruppo storico di amici, i miei genitori, due sorelle, due nipotine. Erano bambine, le ho ritrovate donne.

Nessuno ha provato a frenarti?

No, sapevano che avevo ponderato bene. E non è stato facile: amo Arezzo, ci sono nato e cresciuto, ho un legame viscerale con la città. Sono un figlio dell’Orciolaia e ne vado fiero. Però dovevo salire su quel treno.

Cosa mette in borsa uno che deve stare fuori due anni?

Lo zaino più grande pesava ventuno chili. Dopo qualche giorno ho venduto un po’ di roba. Ne avevo troppa e troppo pesante. Ho vissuto con una decina di magliette, qualche felpa, pantaloni lunghi e bermuda. Le scarpe le ho comprate in giro.

Medicine?

Oki, Aulin, Enterogermina. Per fortuna ho avuto solo qualche mal di testa.

Nello zaino più piccolo cosa c’era?

La reflex per le foto. Un’action cam della Sony. Un pc portatile. I carica batteria. Nel carrellino avevo il mio hang.

Cos’è.

Uno strumento a percussione. Mi ha fatto compagnia. Wanderhang, il titolo del mio libro, nasce da qui.

Unica regola del viaggio: tenere sempre i piedi per terra. Niente aerei. Perché?

Perché temevo di non vivere gli spostamenti. Attraversare i confini mi ha dato sensazioni pazzesche, con l’aereo non sarebbe stata la stessa cosa. Sul braccio destro ho i tatuaggi dei quattro punti cardine del viaggio: Battambang, Sydney, Pechino, Medellin. Luoghi splendidi.

Tutto bello. Ma quanto hai speso?

Ventiquattromila euro più o meno. Mille euro al mese, trenta euro al giorno. Ti assicuro che ci si può fare. Avevo qualche soldo da parte, ho venduto la mia Golf e sono partito con una carta di credito e una postepay, niente contanti.

Hai mai lavorato per guadagnarti qualcosa durante il viaggio?

Una volta in Giappone. Ero a Osaka, dormire costava un botto. Allora pulivo le camere dell’ostello per tre ore al giorno e mi davano il letto gratis.

Riavvolgiamo il nastro. Da dove cominciamo il racconto?

Perù 2015. Viaggio di piacere. Lì ho deciso che un giorno, non sapevo quale, avrei dato la svolta alla mia vita.

Sali in treno ad Arezzo. E poi?

Un po’ d’Europa fino alla Transiberiana. Uno dei motivi per cui sono partito. Verso l’Est.

Hai trovato l’oriente che ti aspettavi?

Ho trovato terre dal fascino speciale. In testa ho il lento scorrere del tempo nel Laos. Lì non esiste fretta, si vive attimo dopo attimo, ora dopo ora, giorno dopo giorno.

Il tatuaggio dedicato a Pechino. Perché?

Perché la Cina ti fa sognare e imprecare. Ti fa credere di essere il posto più bello del mondo e alla fine non ha tutti i torti.

Il tuo era un viaggio pianificato tappa per tappa o sei andato improvvisando?

Decidevo quasi giorno per giorno. In Vietnam ho preso la moto e non è stata una grande idea: strade pericolosissime, un incidente mortale ogni venti chilometri. Andavo a trenta all’ora e avevo i brividi.

Paura?

Tensione più che altro. Paura l’ho avuta in Brasile. A Rio c’erano case con il filo spinato intorno e gente che ti guardava in cagnesco. Dormivo in una stanza con un ragazzo australiano, abbiamo fatto pari o dispari per decidere chi doveva uscire a comprare la cena. E’ toccato a lui, ha girato l’angolo e gli hanno puntato la pistola in faccia. Ha consegnato i soldi che aveva ed è tornato indietro. Siamo restati a digiuno, ma la fame era passata.

Dov’è che sei rimasto a bocca aperta?

Sulla muraglia cinese. Ero insieme a tre ragazzi francesi, mi sono beccato una pioggia torrenziale. Poi però ha smesso e all’alba ho scattato una delle foto che mi piacciono di più. Una meraviglia.

In Australia hai comprato bicicletta e tenda.

Sì. Dovevo risolvere il problema di viaggiare e dormire a buon prezzo. Mi ero imposto di fare sessanta chilometri al giorno ma non ho tenuto la media. Mi ha salvato un pickup: ero distrutto e disperato sul ciglio della strada. Il ragazzo al volante si chiamava Marty, mi ha fatto salire, ha guidato due giorni di fila. E mi ha accompagnato all’imbarco con la nave cargo che avevo prenotato. Altrimenti non ce l’avrei fatta mai.

E la bici e la tenda?

Le ho rivendute a Sydney. Un po’ mi è dispiaciuto, avevo tanti ricordi legati a quel periodo. L’unica volta che ho dovuto suonare un campanello per chiedere ospitalità è successo lì in Australia. Ero sotto il diluvio, fradicio zuppo, non sapevo dove andare. Mi hanno fatto picchettare nel giardino di una casa. Il freddo di quella notte non lo dimenticherò mai.

Hai sempre trovato un tetto sopra la testa, ogni giorno?

Per fortuna sì. Andavo negli ostelli e poi avevo già qualche contatto. Faccio coachsurfing da anni, mi ospitavano all’estero e ospitavo turisti ad Arezzo. Poi li portavo a vedere la città, anche la Giostra.

Bella cosa questa. Sei un quartierista?

Quartierista no, però vado in piazza. Il foulard di Porta del Foro lo avevo messo in valigia.

Dimmi della traversata dall’Australia al sud America. Cosa hai fatto per trentadue giorni dentro una cabina di una nave cargo?

Ho scritto il libro. Ho fatto ordine tra le foto e i video. E mi sono gustato l’attesa dello sbarco in uno dei paesi che poi mi hanno segnato l’anima, la Colombia.

Cosa hai trovato lì che non c’era altrove?

Mi sono sentito a casa. Ero a Medellin, la sera mi affacciavo alla finestra quando tutti dormivano. Io, una sigaretta e un silenzio bellissimo. Mi sembrava di essere nato lì.

Quanto ci sei rimasto?

Tanto, più del previsto. Ho rinunciato al nord America perché non avrei più avuto tempo e soldi. Ma ne è valsa la pena, adesso parlo uno spagnolo buono, ho visitato posti incantevoli. A Bogotà ho incontrato Katherine e mi sono fidanzato. Per lei ho avuto la tentazione di interrompere il viaggio, ma non me lo sarei perdonato. Così ho proseguito e adesso abbiamo dei progetti insieme.

Dopo due anni del genere, che cosa vuoi fare della tua vita?

Tornare in Colombia, aprire un ostello a Medellin, alla Comuna 13. Quella parte di città ha bisogno di aiuto, ho visto con i miei occhi i bambini rincorrere un pallone in mezzo al fango. Mi piacerebbe costruire un centro sportivo, dare loro la possibilità di giocare a calcio e coltivare il sogno di una vita migliore.

Hai parlato di tanti stati d’animo. Quando sei sceso alla stazione di Arezzo, dopo il viaggio di ritorno, cosa sentivi dentro?

Avevo voglia di riassaporare i miei amici, la mia città. Ho visto l’insegna dell’hotel Minerva, quella che guardavo dalla finestra di casa mia quando ero bambino, ed è stato un grandissimo sollievo.

Te lo saresti immaginato?

Sì, sapevo che sarei tornato. E sapevo che sarei tornato diverso.