Persone sole, senza lavoro, senza alloggio, in prevalenza uomini italiani tra i 36 e i 50 anni. Secondo l’ultimo rapporto diocesano sulle povertà, è questo l’identikit di chi si mette in coda per togliersi la fame dallo stomaco. Ad assisterli decine di volontari che spendono il proprio tempo per aiutare gli altri: “Non serve l’elemosina, servono vicinanza e conforto”. Viaggio tra gli indigenti, spesso invisibili e sempre più numerosi

In fila per togliersi la fame dallo stomaco, per ingannare il tempo che scorre ruvido sul cuore, dentro le ossa, sulla vita. Mensa Caritas di piazza San Domenico ad Arezzo, una sera qualunque. Sotto il colonnato del chiostro ci sono sedie e tavoli per gli ospiti che vengono a consumare un pasto caldo. Entrano alla spicciolata. Di media sono una trentina, molti dei quali invisibili: stranieri che non hanno ottenuto il permesso di soggiorno ma non sono stati rimpatriati, italiani senza più un lavoro né una relazione familiare, persone abbrutite dalle dipendenze, senza fissa dimora. Tutti con un briciolo residuo di dignità da salvaguardare, anche se la dignità, ormai, non è in cima ai loro pensieri.
La Caritas ha attrezzato il chiostro con funghi termici e telonati che proteggono dalle intemperie e consentono il servizio mensa anche d’inverno, anche con il covid. Il menu è frugale ma completo: primo, secondo, contorno, frutta, dolce. L’alcol è bandito, stoviglie e posate sono in materiale compostabile.
Quasi tutti gli ospiti gradiscono l’accoglienza, molti consumano in silenzio e in silenzio se ne vanno, qualcuno si lamenta, anche se è un grido d’aiuto più che un atto di protesta. I volontari in servizio abbozzano, consolano, sopportano, comprendono. E’ un compito che assolvono con coscienza dopo aver misurato la temperatura, distribuito il gel igienizzante per le mani, apparecchiato, cucinato, servito ai tavoli.
Secondo l’ultimo rapporto diocesano sulle povertà, relativo ai dati della diocesi di Arezzo, Cortona e Sansepolcro, nel 2019 gli operatori della Caritas hanno assistito 2.007 persone e famiglie, in prevalenza italiane (35,3%). Tra le nazionalità seguono il Marocco (13,9%), la Romania (10,8%) e l’Albania (8,1%). La percentuale di italiani è cresciuta dal 2015 a oggi, a riprova dello stato di precarietà e povertà relativa che attanaglia tanti connazionali. Tra i bisogni segnalati, quelli più evidenti sono legati alle problematiche economiche e di occupazione (71,4%). A ruota le problematiche abitative, familiari e di salute.

In questo contesto generale, il servizio mensa di Caritas è uno dei più preziosi. Nel 2019 sono stati distribuiti 11.169 pasti dalla mensa diurna di piazza Giotto (che adesso consegna cestini da asporto causa covid) e 8.875 dalle mense serali di Saione e San Domenico. Numeri alti, in attesa dei dati ufficiali per il 2020 che faranno registrare una decisa impennata.
“Le mense sono un punto di riferimento per vari motivi” ci ha spiegato Gabriele Chianucci, referente dell’area servizi bassa soglia della Caritas diocesana. “Innanzitutto soddisfano un bisogno primario. Poi offrono quel calore umano che dovrebbe essere un bene essenziale e garantito per tutti. Infine gli ospiti, alle prese con fallimenti di vario tipo sperimentati durante la loro vita, sanno che da parte dei volontari e del servizio non emergono forme di giudizio sul loro presente o sul passato”.
Il circuito delle mense di Arezzo, sempre secondo il rapporto diocesano che si intitola “Turbati”, è frequentato per il 44,7% da italiani, per il 12,9% da marocchini e per il 9,8% da rumeni. Nel 77% dei casi si tratta di persone tra i 36 e i 50 anni d’età, molte delle quali con percorsi personali molto complicati. Alla mensa si rivolgono in larghissima maggioranza gli uomini (83,4%), mentre i disoccupati rappresentano l’87,1% del totale, con i celibi/nubili che toccano la soglia del 52,5% sul totale. Il dato evidenzia quanto gli ospiti delle mense si diversifichino rispetto all’utenza generale degli altri servizi Caritas. Si tratta infatti per la maggior parte di persone sole, anche a seguito di matrimoni falliti, che si ritrovano a vivere senza un lavoro e spesso anche senza un alloggio. Le persone senza fissa dimora rappresentano il 36,8% delle registrazioni. Il 18,7% ha dichiarato di vivere in abitazioni di fortuna, l’11,4% di alloggiare presso una struttura di accoglienza.
“Qualche aretino in più, rispetto al passato, lo abbiamo visto” ha aggiunto Chianucci. “Ma il pudore, la vergogna a farsi vedere in certi contesti sono freni potenti. E’ più probabile che una persona scivolata dalla stabilità economica a una condizione di difficoltà, chieda aiuto al nostro centro d’ascolto, che garantisce maggiore discrezione. L’età media degli ospiti resta stabile, anche se si sta registrando un aumento di trentenni che vivono problemi di tossicodipendenza. Il disagio giovanile si è acuito durante la pandemia”.

Droga, alcol, gioco d’azzardo, povertà, problemi psichici sono infidi compagni di strada, barriere verso gli altri. Gli ospiti delle mense quasi mai socializzano tra di loro o con i volontari. Mangiano e si defilano, spesso risalgono sul primo treno e lasciano Arezzo, proseguendo il loro viaggio senza un tetto né una destinazione. Ogni tanto, però, c’è spazio per qualche storia più umana, meno cruda. Come quella di Raimondo, alcolista, clochard, mezz’età e barba lunga. Originario di Isernia, era capitato ad Arezzo per caso, con un matrimonio andato male e un figlio del quale non aveva più notizie. Si vergognava a confessargli che aveva perso tutto e viveva sui marciapiedi, mangiando alla mensa della Caritas. Finì in ospedale, i volontari gli portarono dei vestiti per cambiarsi e da lì qualcosa cambiò. Raimondo iniziò un percorso di recupero, andò in comunità, poi scelse di tornare ad Arezzo e ottenne un alloggio popolare in cohousing con un altro ospite. Si tagliò la barba incolta, prese la residenza in città. Soprattutto, riuscì a riallacciare i rapporti con il figlio. E quando morì, qualche anno più tardi, lo fece con un mezzo sorriso stampato in faccia e l’espressione di chi si era rimesso in pace con il mondo.
Invece Raffaello, pensionato, vedovo, era arrabbiato con il destino, scorbutico con l’umanità. Mangiava alla mensa, non diceva una parola. Arrivava e ripartiva senza salutare nessuno. Però, per ringraziare, regalava quadri. E succedeva spesso. Aveva come hobby la pittura e una tela, per lui, valeva più di mille convenevoli.
Le storie degli ospiti si intrecciano con quelle dei volontari che lavorano dietro le quinte. In mensa, ogni giorno, ce ne sono all’opera tra i 4 e i 6. Al Giotto, in totale, ne ruotano 40, a San Domenico 25. In genere sono prevalentemente donne sulla sessantina, ma il covid e il lockdown hanno segnato un forte incremento di giovani. Una piccola fetta è rappresentata dagli inserimenti protetti, riservati a persone sottoposte a misure carcerarie o di limitazione delle libertà personali che devono seguire un percorso di reinserimento sociale. Attive anche convenzioni con il dipartimento di salute mentale (Dsm) e con il servizio per le dipendenze (SerD).

un gruppo di volontari al lavoro alla mensa di piazza Giotto

I volontari fanno la spesa, stanno ai fornelli, stabiliscono il menu, puliscono gli ambienti, servono gli ospiti, mettono in ordine le dispense. I viveri arrivano grazie agli accordi con Croce Rossa Italiana e Banco Alimentare, alle donazioni di privati, bar, ristoranti e di enti di vario genere.
“Le motivazioni che spingono i volontari a prestare servizio sono variegate” ha raccontato Alessandro Buti, referente dell’area pastorale di Caritas. “C’è chi vuole dedicare del tempo agli altri, chi cerca conforto perché sta vivendo una situazione di fragilità, chi vuole reagire dopo un lutto, chi si sente in dovere di aiutare i più deboli. Molti provengono da percorsi di fede, anche di religioni diverse da quella cristiana. L’obiettivo che accomuna tutti è dare una mano a chi ne ha bisogno”.
Caritas si occupa di coordinare la rete dei volontari secondo un iter che prevede un colloquio conoscitivo, un orientamento, un primo inserimento e poi la turnazione effettiva in servizio. Il tutto dentro una realtà mutevole come quella aretina, in cui cresce l’abbandono scolastico ma anche l’impegno dei giovani con il servizio civile. E in cui ai picchi di individualismo fanno da contraltare le consolidate realtà associative di solidarietà.
“Io abito a Tegoleto, sono in pensione dopo aver lavorato in un laboratorio di analisi chimiche presso Arpat. Faccio la volontaria da luglio dell’anno scorso perché voglio portare il mio sostegno a chi si trova in difficoltà. Anche se poi i benefici riguardano anche me stessa: sono più serena”.

Alessandro e Gabriele, referenti di area della Caritas di Arezzo

Patrizia è una delle tante persone che dedicano tempo ed energie alla comunità. Il lunedì presta servizio alla mensa di piazza Giotto, ma su di lei possono contare ogni volta che ce n’è l’esigenza. “Pensionata non vuol dire inattiva, chiudermi tra quattro mura sarebbe insopportabile. E poi in famiglia siamo sempre stati sensibili alle tematiche del volontariato: mio marito è venuto ad aiutarmi qualche volta, i miei figli si sono impegnati in più circostanze. Devo dire che ho trovato un ambiente stimolante, dove si sono create complicità e collaborazione. Questo clima positivo ci consente di offrire agli ospiti non soltanto un pasto ma anche quel calore umano che è fondamentale. E garantisco che non è semplice restare impassibili davanti a certe situazioni. Personalmente sto male ogni volta che vedo entrare un giovane. Sono sempre di più, purtroppo, italiani e stranieri. Ricordo ancora una mamma che aveva una bambina di 6 o 7 anni, alla quale lasciavamo ogni volta una piccola sorpresa da portare via. O quel signore algerino che teneva in mano la foto della figlia e piangeva perché non poteva tornare a casa a rivederla. Serve lo spirito giusto per vivere certe emozioni. Io mi sciolgo quando qualcuno mi dice grazie o che la pastasciutta è buona. E’ una delle molle che mi spingono a continuare”.
“Vivere la carità in modo dignitoso e rispettoso è sempre più importante” spiega Buti. “La società muta insieme alle sue dinamiche: non serve l’elemosina quanto la vicinanza, la comprensione, il conforto. Il fatto stesso che le mense non siano luoghi freddi, asettici ma si trovino all’interno dei locali parrocchiali, è un segnale per gli ospiti e per la comunità cristiana, affinché acquisisca consapevolezza del problema degli indigenti. La missione di Caritas, oggi, è soprattutto questa”.