Nessun romanzo, zero invenzioni, soltanto la solida ricostruzione di eventi tragici, spogliati di retorica: “il buio sotto la divisa – morti misteriose tra i servitori dello Stato” è un’inchiesta lungo sei storie diverse, tanto dolorose quanto necessarie da raccontare, oltre che un primo punto d’arrivo per la giornalista aretina, che vanta collaborazioni con SkyTg24, La7, L’Espresso e Avvenire. “Questo è un mestiere che tutti si illudono di poter fare, ma non è così. Non posso chiamare collega chi si improvvisa”

“Nell’epoca di internet e delle fake news è fondamentale tenere la barra dritta. Non è facile: oggi i giornalisti sono sotto attacco”. Scomodi sia per certe parti politiche che per gruppi di pressione che vorrebbero bypassarli. “Ma l’informazione fa parte dell’ossatura della democrazia, va coltivata, curata, difesa”. La passione le è entrata quand’era piccola: “Ho sempre detto che avrei fatto la giornalista oppure il magistrato, mestieri peraltro affini”. Sara Lucaroni ha appena pubblicato il suo primo libro: un’inchiesta lungo sei storie diverse, tanto dolorose quanto necessarie da raccontare. Il titolo è “Il buio sotto la divisa” e, da più angolazioni, cerca di portare luce laddove mistero e oblio rischiano di portar via la verità. Il tema è quello dei suicidi tra forze dell’ordine e di polizia. Pagine vergate con amore e diligenza, curate per mesi e mesi, dopo una verifica scrupolosa e un viaggio (fisico) attraverso l’Italia per incontrare i testimoni. Nessun romanzo, zero invenzioni, soltanto la solida ricostruzione di eventi tragici, spogliati di finzioni e retorica. Ma senza dimenticare il tocco umano, che denota sensibilità, rispetto e mette in empatica connessione storia e lettore. Il libro è uno spartiacque, un punto di approdo e ripartenza per Sara. Un traguardo di valore nella costante ricerca della verità: ovvero, l’unica acqua in grado di placare una sete provata sin dagli esordi.

“Sono aretina ma ho iniziato con un giornale della provincia di Siena, il Cittadino Oggi: ero giovane, mi sono iscritta all’ordine dei giornalisti prima di laurearmi. Durante la settimana studiavo all’università a Firenze, dove vivevo, poi tornavo a casa nel weekend e scrivevo. C’era una rubrica, una pagina intera, che usciva ogni domenica, si chiamava Il personaggio della settimana. Raccontavo una persona con una storia interessante. Una volta andai a intervistare un dirigente della banca Monte dei Paschi di Siena, oggi scomparso, una persona straordinaria: si chiamava Pasquale Marchi. Ebbe un grave incidente domestico, inciampò e cadde in giardino: rimase tetraplegico. Aveva un grande spirito e a seguito del dramma personale, fondò un’associazione per aiutare persone con disabilità. Scrissi l’articolo della settimana su di lui, sulla sua storia e sull’aiuto che stava portando agli altri: rimase molto colpito. Così, dopo l’uscita, mi richiamò, chiedendomi di scrivere un libro sulla sua vita. Accettai e passammo molto tempo assieme: lui non poteva parlare bene, imparai ad ascoltare. Andavo lì la mattina: lui raccontava, io prendevo appunti. Mi sono fatta orecchio. Il libro uscì a sua firma, si chiamava Il filo dei ricordi. Quell’esperienza mi è servita tantissimo, caratterizzando in maniera decisiva la direzione che ho poi imboccato e mi ha accompagnato fino ad oggi. Mi ha insegnato un metodo: mettere al centro la persona. Pretendere l’oggettività è un’illusione, ma è importante l’aderenza ai fatti, quando si racconta. Accantonata l’idea del magistrato, mi sono dedicate alle storie. E quando si parla di giustizia, ad esempio, il lavoro di ricostruzione da fare non è poi tanto diverso da quello di un inquirente”.

Dopo la laurea (“in filosofia morale, con tesi sulle meditazioni metafisiche di Cartesio”), iniziano le collaborazioni con le tv, prima locali come Tele Idea e Teletruria, poi Italia 7. “Facevo servizi di cronaca giudiziaria”. Nel 2011 Sara si trasferisce a Roma. “Lì ho iniziato a lavorare a Tv2000. Ho fatto esperienza a La7, ho collaborato con SkyTg24 come freelance e poi con il programma Speciale Tg1. Successivamente ho lavorato al programma M di Michele Santoro, su Rai 3. Ma accanto alla televisione, non ho mai smesso di lavorare per la carta stampata. Ho collaborato dapprima con Avvenire, poi con L’Espresso”, racconta.

Nel 2014 qualcosa cambia. “Quell’anno ha coinciso con una delle mie tante ripartenze. Era terminato il contratto con Tv2000, ai precari non lo rinnovarono. E così decisi di tornare in strada dagli studi tv. Andai a Malta di mia iniziativa, per seguire le prime ondate di migranti, molti dei quali dalla Siria. Da lì, ho firmato i miei primi reportage all’estero, ho documentato la prima nave che portava soccorsi. Ho cominciato ad occuparmi di immigrazione per Avvenire. Non solo, avevo avuto occasione di seguire le primavere arabe per Tv2000. Ed era fiorito l’interesse per il Medio Oriente. Poi era scoppiato il caso Isis. Nel settembre 2014 ricevetti una chiamata dal Sinjar, in Iraq, da parte di famiglie scappate dall’Isis, il tramite fu un ragazzo della minoranza Yazidi. E nell’estate 2015 mi sono recata lì, per la prima volta. Sono tornata altre due volte, l’ultima nel 2019. Ho poi affrontato viaggi in Siria, in Turchia, in Libano. Ho realizzato un documentario per SkyTg24 e reportage per Avvenire e L’Espresso”. Viaggi per nulla agevoli, a volte decisamente rischiosi, in teatri di guerra. “Ai miei non dissi nulla di preciso a proposito del primo viaggio sulla Piana di Ninive, nel nord dell’Iraq, la città di Mosul era occupata dall’Isis. I miei genitori hanno saputo tutto al rientro, altrimenti mi avrebbero nascosto il passaporto”, dice sorridendo.

 

Non solo pericoli sul campo, per un giornalista molte insidie oggi si annidano nella Rete. “Ho subito attacchi sistematici – aggiunge Sara – quando sono usciti alcuni reportage da Damasco, scagliati da neofascisti che sostengono il regime di Assad. Io non me ne ero accorta, mi preoccupai quando mi arrivò un messaggio da Vittorio Di Trapani, del sindacato dei giornalisti Rai Usigrai: ‘Chiamami per qualsiasi cosa, solidarietà’. C’erano valanghe di tweet contro di me, cercarono di screditare il lavoro che avevo fatto, Roberto Fiore di Forza Nuova scrisse una lettera al direttore di Avvenire. Ci furono articoli di Casapound. Mi attaccarono perché non avevo raccontato le versione dei fatti imposta dalla propaganda. Io ho scritto solo quello che avevo visto: la Siria era un paese distrutto da un regime che va avanti dal ’70. All’inizio non è stato facile, poi ho iniziato a rispondere con ironia agli hater. Di solito c’è una rete organizzata che si muove: si coalizzano e vanno a colpire il soggetto che viene preso di mira, di volta in volta. Ed è sorprendente scoprire che tra gli odiatori ci sono persone normali: pensionati, che postano le foto del gatto e del nipote. Poi però prendono la Rete come sfogatoio”.

Il Covid ha spazzato via molte certezze, anche dei giornalisti. “Soprattutto all’inizio, con il primo lockdown, non c’era più spazio per altre storie se non quelle legate al Covid, che cosa succedesse nella guerra in Siria non importava più. E tanti giornalisti come me si sono rimodulati. Le storie che potevano essere buone prima, non lo erano più. Ho cercato di rimanere coerente con il mio orientamento, cercando di continuare a raccontare: dalle vittime di tratta alle truffe nelle vendite online di mascherine. Gli esteri sono rimasti un po’ marginali. Come detto, mi occupo di storie, non mi considero una vera giornalista di esteri”.

Dopo un’inchiesta per l’Espresso del 2019 è nato il libro “Il buio sotto la divisa” con le storie di Bruno Fortunato, il poliziotto della Polfer che nel 2003 su un treno a Castiglion Fiorentino arrestò Nadia Desdemona Lioce e durante la sparatoria coi brigatisti perse l’amico Emanuele Petri. E poi quelle, altrettanto tragiche, di Fedele Conti, capitano della Guardia di Finanza; Daniele Da Col, ispettore della Polizia Municipale di Firenze; Santino Tuzi, brigadiere dell’Arma dei Carabinieri; Marco Massinelli, il maresciallo dei Carabinieri; Vitantonio Morani, agente della Polizia Penitenziaria. “Sento che il libro è incompleto. Se ho un rammarico, è quello di non aver potuto scrivere la storia di una donna come Claudia Racciatti”. Il volume ha avuto un successo inaspettato. “Decisamente. Ho avuto riscontri positivi per un racconto considerato coraggioso ma rispettoso. E sono contenta di come sia stato accolto dalle famiglie delle vittime. Una mamma mi ha detto: ‘Sono rinata’”.

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Un libro che avuto un primo lettore speciale, Andrea Scanzi. “E’ il mio compagno, ha letto i primi capitoli mentre lo stavo scrivendo. Di politica non si parla mai in casa, ma di lavoro sì. Ci sosteniamo sempre tanto a vicenda. E poi è un ragazzo straordinario. Sono molto fortunata ad averlo vicino”.

Infine una riflessione sul giornalismo in Italia. E sui suoi tanti problemi. “Prima di tutto, i giornali sono fatti spesso da collaboratori sottopagati, senza tutele né salari minimi, a volte proprio sfruttati. Il giornalismo sta rinunciando all’approfondimento e alla qualità. Si rinuncia alla parte più importante, quella che permette ai lettori di farsi un’idea propria dei fatti. Molti colleghi si sentono la notizia e questo non è un bene per loro e per i lettori. E poi quello del giornalista è un lavoro che tutti si illudono di poter fare, ma non è così. Non posso chiamare collega chi si improvvisa in questo mestiere. Sono contraria, ad esempio, all’abolizione dell’Ordine, benché ci siano delle evidenti problematiche. Io credo molto alla mia professione. E come detto, nell’epoca di internet e delle fake news il giornalismo diventa essenziale per la tenuta della democrazia”.