Dal primo fido bancario di 4 milioni di lire all’impero di Monnalisa, da quel viaggio improvvisato in Germania all’esportazione del brand in 64 paesi. Una storia tutta aretina fatta di colori, stile, eclettismo, creatività. E della costante ricerca di un bene che molti trascurano colpevolmente: il sorriso

Si presenta con papillon argentato, occhiali blu, pochette a pois. E un sorriso di quelli che aprono il cuore. E’ il patron di Monnalisa, proprietario di un brand da oltre 40 milioni di euro all’anno, l’uomo che da Arezzo ha portato il suo marchio in 64 paesi nel mondo. Piero Iacomoni veste i bambini di colori, stile ed eleganza. E dei bambini mantiene la curiosità, la fantasia e l’entusiasmo: caratteristiche che lo hanno accompagnato lungo tutto il suo percorso. “Il successo oggi si calcola in soldi, in guadagno. A me i soldi sono serviti. Ma li ho usati come mezzo. E’ l’idea che vince sempre”. Monnalisa, realtà di childrenswear di fascia alta, è stata fondata nel 1968 da Piero e da sua moglie Barbara Bertocci, oggi rispettivamente presidente del consiglio di amministrazione e direttore creativo. La filosofia di Monnalisa è basata sulla combinazione di attività imprenditoriale, innovazione, styling originale e sviluppo delle risorse umane. Sapienti pennellate per dipingere un quadro che possa creare valore nel tempo. Iacomoni ci ha messo tenacia, determinazione, rispetto delle diversità, dei differenti tempi di vita e di lavoro. E poi il dialogo con i dipendenti, per creare un ambiente sereno e stimolante. “Mi piacciono tutti i miei collaboratori. Ad un colloquio di lavoro, a parità di competenze, io prediligo chi sorride”. Piero ha visione – anche quella di insieme – eclettismo e capacità, persino quella di sapersi fermare per garantire un futuro all’azienda. “Dal 2011 ho passato il testimone a Christian Simoni, adesso amministratore delegato. E’ stata una scelta difficile affidare Monnalisa ad una persona esterna, seppur competente e qualificata come Christian. Avevo bisogno di vedere l’azienda da fuori, come – aggiunge senza giri di parole – se fossi già morto. Perché voglio che Monnalisa continui a crescere e splendere anche senza di me. E’ complicato farsi da parte. Forse la lezione più complessa che ho dovuto ma anche voluto imparare: delegare, fidarmi, intervenire solo se richiesto. Ma adesso, sono certo, che ciò che ho creato avrà lunga vita”.

Iacomoni indugia un attimo, poi riavvolge il nastro dei ricordi. E fissa il momento in cui tutto è nato.

“Avevo circa 19 anni quando, girovagando per l’Europa in lambretta, capitai al Louvre, scrigno di gioielli e rare bellezze. Fra queste, c’era lei. Davanti al quadro della Gioconda si accalcavano decine di persone con sguardo innamorato. Stetti lì per un po’ contando i vari gruppi. Calcolai che, soltanto in quella giornata, 17mila persone si erano recate in pellegrinaggio per ammirare l’immagine dell’enigmatica signora. Anch’io volevo creare la mia opera d’arte. Era il 12 febbraio del 1965 e quel giorno decisi, con l’approvazione di Da Vinci, che qualsiasi attività avessi avviato nella mia vita l’avrei chiamata Monnalisa”.

Imprenditori si nasce; sì ma nello spirito. Perché anche un sempilce manovale può costruirsi il suo impero. Mattone dopo mattone.

“Da giovane lavoravo come operaio alla Vega. Il capo vide che ero uno acuto, con ambizioni. Mi mandò a studiare in una scuola di business per imparare a gestire i tempi di produzione. In poco tempo, con le stesse ore di lavoro, passammo da poco più di mille a seimila capi prodotti. Il mio superiore si sorprendeva perché non alzavo mai la voce ma cercavo di coinvolgere il personale e stimolarlo. In diciotto mesi fui promosso direttore generale. Ma ero sempre dipendente e mi stava stretto”.

Il primo fido venne accordato dal padrone di casa. “Mi presentai con mio padre, onesto e umile artigiano. Ottenni 4 milioni di lire per iniziare la mia attività e una pacca sulla spalla”.

Poi la rivoluzione del business con l’ingresso della bella Barbara alla direzione creativa. “I suoi vestiti hanno un’identità, un’anima, hanno carattere. I bambini non sono adulti in miniatura. Hanno il loro stile, il loro bisogno di esprimersi in maniera differente”.

Il primo mercato estero conquistato da Monnalisa è stato la Germania, ma non fu una scelta pianificata. “Nel 1978 ci fu un terremoto devastante in Sicilia. Io avevo là un mio cliente che mi doveva tanti soldi. Lui mi diceva che la scossa gli aveva portato via tutto; a me dispiaceva ma avevo bisogno di quel denaro e partii con il mio furgone deciso a ritornare con ciò che mi spettava”.  Piero si ferma un attimo. Fissa le sue mani appoggiate sulla scrivania per qualche secondo prima di alzarne una e asciugarsi una lacrima. “Fu un lungo viaggio in compagnia di Lilla, il mio pastore tedesco. Quando arrivai mi accorsi che il suo negozio era distrutto. Abiti rovinati, sporchi di fango erano appesi a fili e grucce improvvisate. Mi accolse come un amico e la moglie mi offrì un caffè. Tirò fuori un cucchiaino impolverato e, prima di darmelo, aprì un’urna dove teneva la poca e preziosa acqua potabile. La versò sulla posata per pulirla e poi me la allungò. Non scorderò mai quel gesto, non ce la feci a chiedere niente. Li abbracciai e risalii sul furgone. Non sapevo però come fare a tornare a casa senza soldi. Mi venne in mente che in Germania si stava svolgendo Kindermesse, una grande fiera internazionale dedicata ai bambini. Guardai la mia fedele Lilla in cerca di approvazione e guidai fino a Colonia. Non avevo abiti da esposizione ma avevo il campionario. Così usai dei fili di nylon per appendere i vestiti. Il mio spazio era orribile ma le persone si fermavano perché i miei modelli attiravano l’attenzione e piacevano. Inventavo a tutti che mi avevano derubato prima di varcare il confine. La notte dormii nel furgone. Il giorno seguente i miei vicini di stand mi prestarono chi una sedia, chi un tavolo, chi qualche gruccia. C’era sempre la fila davanti alla mia arrangiata esposizione. Decisi di chiedere un acconto sugli ordini. Finita la fiera tornai a casa con i soldi”.

Rovista in tasca ed estrae il suo passaporto. “Quanta strada da allora. – sospira sfogliando il documento – Adesso lo porto sempre dietro, ne ho già riempiti diciassette”. I minuti scorrono rapidi fra il racconto di quando riuscì ad entrare in Cina senza visto, spacciandosi per un pilota italiano – partito dal “prestigioso” aeroporto Molin Bianco di Arezzo – oppure quando si imbarcò clandestinamente su un traghetto dalla Sardegna, insieme a Barbara, raccontando al controllore, come fosse vero, che la moglie lo aveva tradito con un bagnino in vacanza.

Eccellenza nella moda, nella creatività ma anche nel sociale. Piero Iacomoni è stato premiato con il David di Michelangelo per il suo impegno nelle iniziative solidali e per la sua politica corporate social responsibility. Con la Onlus, che porta il nome dell’azienda, sostiene numerosi progetti fra cui Strasicura, una cittadella a disposizione dei giovani per promuovere una cultura della sicurezza stradale.

Monnalisa è nata ad Arezzo, è cresciuta, fino a diventare un brand internazionalmente riconosciuto. In grado di affascinare, tenere alte le insegne del Made in Italy e di raggiungere nuovi mercati. Un percorso tutt’altro che scontato, costantemente alimentato da idee e passione.

“Oggi forse ci scordiamo di sognare. I giovani sono più disillusi ma non mancano idee o voglia di emergere. Anzi, gli strumenti sono di più rispetto a quelli che potevo avere io a disposizione. Bisogna tenere sempre a mente scopi e metodo. Per volare non è necessario nascere con le ali. Possiamo anche costruircele e allora sì che arrivare in alto sarà un successo”.

Backstage

“Ho 73 anni e con voi vorrei parlare di futuro e di progetti. Che dite? Ok vi posso raccontare anche la mia storia, sicuri che vi va di sentirla?”. Neanche aveva finito di scendere le scale, con l’entusiasmo di un adolescente al primo appuntamento e un’allegria contagiosa. Ha stretto calorosamente la mano a Cristiano e ha abbracciato me. Come ci conoscesse da una vita. “Ti piaccio in blu? – ha chiesto a Lorenzo, il fotografo, mentre si presentava – Non so perché ma mi sembrava un colore adatto per l’intervista di oggi. Sarà che mi sento profondo”. Una frase, un sorriso, una battuta e in pochi secondi aveva mandato in frantumi ogni barriera. Ci aveva pensato lui a mettere tutti a proprio agio. Da buon padrone di casa, da italiano, da aretino.

Eccome se avevamo voglia di sentire la sua storia, in quel momento più che mai. Quella che aveva portato il figlio di un artigiano ai vertici della moda mondiale riuscendo a mantenerlo umile, disponibile e sorridente. Con la voglia di parlare, di condividere e di ascoltare

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Chiara Calcagno Ostinatamente giornalista, scrivo per lavoro, per piacere, per fare la spesa. Mi nutro di bellezza, di mare, di vigne e di cinghiale in umido. Quello di mia nonna. Vorrei avere capelli sempre in ordine e mani curate ma perdo troppo tempo a cercare le chiavi dentro la borsa.