L’emergenza coronavirus ha aperto scenari incerti e imprevedibili. Finirà, questo è certo. Quello che non è certo è quando. Il sociologo Domenico Aversa, esperto di risorse umane e dei problemi relativi alla negoziazione dei conflitti, ci ha spiegato cosa sta succedendo e cosa dobbiamo aspettarci: “Da una pandemia nasce non solo un disordine del vivere sociale ma anche la rimodulazione del vivere interiore. La costrizione abitativa, oltre al timore del contagio, fanno emergere la nostra vulnerabilità emotiva e fisica. Come uscirne? Prendendo coscienza di ciò che ci è accaduto. E sviluppando la resilienza”

E’ accaduto da un giorno all’altro. Senza preavviso, senza possibilità di organizzarsi. E’ un nemico invisibile che, oltre a seminare morte, trascina con sé paure, angosce e incertezza. In mano non ci sono armi adatte per combatterlo e tutti stanno imparando a vivere alla giornata, stravolgendo ogni abitudine quotidiana. Barricandosi in casa a osservare le città deserte, il tempo sospeso, provando a immaginare il futuro. Improvvisamente le persone hanno dovuto rendersi conto di quanto gli ordini sociali possano essere fragili: basta un virus per abbattere ogni assetto e mettere tutto in discussione. E la globalizzazione, da anni sotto la lente per rintracciarne pregi e difetti, rischi e benefici, ha inaspettatamente mostrato un volto dirompente, creando scenari inediti e imprevedibili. Finirà, questo è certo. Quello che non è certo è quando. E che forma avrà il domani.

Domenico Aversa, classe 1953, è laureato in sociologia, area psicosociale e della comunicazione. Formato all’Istituto di psicosintesi di Firenze, è iscritto nei registri della So.I.S. (Società italiana di sociologia) di cui è stato, per la Toscana, consigliere nel direttivo e vicepresidente. Libero professionista nel campo delle risorse umane e dei problemi relativi alla dimensione comunicativa della sociologia clinica e della negoziazione dei conflitti, svolge attività di ricerca, motivazione e consulenza manageriale.

“Nella situazione attuale di pandemia, ovvero il diffondersi di un’infezione virale su tutto il territorio o popolazione, si può parlare di disastro. Da una pandemia nasce non solo un disordine del vivere sociale ma anche1 la rimodulazione del vivere interiore, facendo scaturire in molti soggetti solitudine, silenzio, penombra ma anche rabbia e frustrazione che, in casi limite, può trasformarsi in quella che viene chiamata notte buia dell’anima”.

#andràtuttobene è l’hashtag che è rimbalzato in milioni di post, frase digitata sulle tastiere e scritta con i pennarelli, ripetuta come una preghiera, un mantra, una formula magica. E poi le canzoni dai balconi, l’inno nazionale, l’importanza per i piccoli gesti, l’applauso agli “eroi” in prima linea e il bisogno di stringersi in un caloroso abbraccio collettivo, anche se virtuale, tramite i social. Queste manifestazioni mettono in luce valori profondi che nella routine restano sopiti oppure devono essere letti come qualcosa di diverso, più elementare?

Credo siano qualcosa di diverso. Sono la cartina di tornasole del senso di impotenza di fronte ad una forza virale poco conosciuta e per la quale, a oggi, non esiste vaccino o antidoto. “Uccello chiuso in gabbia canta per amore o per rabbia”, recita un detto popolare. Tutto è dato, anche, da una reazione inconscia in una situazione di forte negatività, da una difesa che ci protegge da un’eccessiva esperienza negativa e che non siamo in grado di fronteggiare direttamente. Spiego meglio: avrete notato che nelle situazioni di massima estensione emotiva verso l’alto, si piange di gioia, come ad esempio a un matrimonio. In una situazione di massima estensione verso il basso, come una cerimonia funebre, si sorride e si finisce per parlare di tutto pur di non parlare dell’evento luttuoso.

Ma perché si verifica questo?

Accade in virtù della funzione regolatrice che gestisce i meccanismi di difesa e che si chiama impulso. Questo elemento motore interviene ponendo in essere la strategia inconscia più consona ed efficace al momento, creando una barriera immediata a manifestazioni esterne che potrebbero essere deleterie a livello fisico o di ansia o di angoscia. Il cantare alla finestra, lo definirei quindi come una modalità per affrontare l’impatto contro un pericoloso e sconosciuto imprevisto ma che, una volta subentrata la presa di coscienza e quindi la razionalità, è sfumata come la fine di tutte le buone partiture musicali.

Però la capacità di reazione delle persone, sottoposte a uno shock di questa portata, non è uguale per tutte.

No, si diversifica a seconda dei livelli di percezione. Ecco perché si parla di reazione e non azione. Gli aspetti della reazione sono due. Semplice quando ci troviamo davanti qualcosa che già si conosce e, alla cui risposta, siamo comunque preparati o allertati. Tipo il semaforo lampeggiante, il suono di sirena, la porta che sbatte per un colpo di vento. Complessa quando affrontiamo qualcosa di imprevedibile che richiede quattro fasi di elaborazione: sorpresa, interpretazione, accettazione e velocità di soluzione. Il venire meno alla reazione complessa fa emergere nel soggetto la sua vulnerabilità latente. Come nella situazione attuale che, oltre ad essere emotiva, è purtroppo anche fisica.

Chi ne paga maggiormente le conseguenze?

Purtroppo, in termini emotivi, soffrono di più quelle persone che partono svantaggiate, che culturalmente non riescono a reagire davanti a quello che sta accadendo. Non essendo in grado di collocare l’accadimento in un’ottica globale, elaborano strategie personali. A volte subentra anche, e qui devo ripetere purtroppo, la diseguaglianza sociale ed economica, che riduce la capacità di adattamento in quanto vissuta come forzatura alla libertà individuale.

La costrizione abitativa può essere un esempio?

Esattamente. E’ stata da molti forzatamente respinta e la si è dovuta soffocare con decreti legge che hanno sostituito la logica. Non a caso si è arrivati a un momento in cui il numero giornaliero dei denunciati superava quello dei contagiati. Ergo, abbiamo più sciocchi che malati.

A tal proposito, a parer suo, le decisioni prese dal Governo per il contenimento del contagio sono state efficaci ed efficienti?

Davanti ad un pericolo comune all’intera umanità, il rischio più alto è dato dal prendere decisioni. Abbiamo visto un alternarsi di decreti con relative proroghe, un andare per gradi e questo navigare a vista, questa valutazione alla giornata, hanno fortemente contribuito alla vulnerabilità emotiva con la conclusione che, davanti ad una mancanza di chiarezza, si rafforza l’incertezza e quindi entra in scena l’indipendenza personale nell’azione.

In senso strettamente sociologico, il concetto di vulnerabilità emotiva può trovare relazione con la resilienza e l’adattamento?

Certo. Se da una parte siamo afflitti da un senso di vulnerabilità personale e umana, dall’altro in certi individui si ha prima una presa di coscienza della pandemia. Da questa si passa ad una valutazione del rischio individuale, poi a quello globale e quindi alla ricerca di una sopravvivenza all’evento. In una situazione del genere emerge la diversità di ognuno nell’usare l’intelligenza, ovvero la capacità di affrontare situazioni sconosciute. Questa complessa facoltà di tipo cognitivo altro non è che l’elaborazione di conoscenze esperienziali che dovrebbero concorrere ad attivare la resilienza. Il termine resilienza è in uso nelle scienze sociali dagli anni ‘70 e definisce la possibilità di una persona di arrivare a conformarsi positivamente in occasione di eventi traumatici, tali da poter divenire invalidanti o letali. È comunque una caratteristica individuale, inglobata nei tratti caratteriali.

Come si immagina il ritorno alla normalità?

Posso citare Leopardi? Passata è la tempesta: odo augelli far festa, e la gallina, tornata in su la via, che ripete il suo verso.