Stefano Cusin non è aretino ma è come lo fosse. Qui ha iniziato la sua carriera di allenatore, qui vive, tra un’esperienza internazionale e l’altra, con la moglie a Castiglion Fiorentino. Esperienze che lo rendono uno dei tecnici più interessanti e preparati con i quali si possa parlare di calcio e, in particolare, di calcio internazionale. Nato in Canada, a Montreal, da genitori italofrancesi, è cresciuto in Francia, imparando da subito italiano e francese. Differentemente da quello che c’è scritto su Wikipedia è stato un centrocampista «box to box», come si ama definire lui, giocando per vari club, dal 1980 al 1991, tra i quali Tolone, Etoile Carouge e Servette. La prima panchina è stata quella del settore giovanile dell’Arezzo, poi quello del Montevarchi. Nel 2003 la prima chiamata estera, il Camerun Under 20. Chissà cosa pensava quando è salito su quell’aereo, di fatto il primo di tanti altri, in una carriera ultraventennale nella quale ha allenato in Africa, Asia ed Europa. Dopo il Camerun Under 20 ha messo in fila: NQSA Acada Sports, Repubblica del Congo Under 20, Repubblica del Congo Olimpica, Botev Plovdiv, Al-Ittihad Tripoli, Al-Nassr, Al-Nasr, Fujairah, Al-Jazira, Ahli Al-Khalil, Al-Shaab, Wolverhampton, Black Leopards, Ermis Aradippou, Ahli Al-Khalil e Shahr Khodro. Con i suoi cinquantadue anni è al tempo stesso uno dei tecnici più giovani e con più esperienza alle spalle, con un DNA nomade che scorre nel suo sangue e nel suo calcio. Quello che pratica e quello che racconta.

Stefano Cusin

Cos’era il calcio per Cusin?
«Prima di tutto: divertimento e passione. Sono le prime parole che mi vengono in mente».

Che centrocampista è stato e qual è il club più importante nel quale ha giocato?
«Ero un centrocampista box to box e i club più importanti nei quali ho giocato sono stati il Tolone, nella serie A francese, e il Servette di Ginevra. Qui facevo parte dell’Under 23 e quando ci allenavamo con la Prima squadra avevo di fronte Karl-Heinz Rummenigge, a fine carriera; ricordo ancora la sua fisicità».

Nato a Montreal, da genitori italofrancesi, vive a Castiglion Fiorentino, nomade nel DNA?
«Sì. Ho avuto la fortuna di crescere in Francia, un Paese multietnico, e questo ti forma, ti aiuta a non porti limiti e barriere, soprattutto quelle mentali».

Poi la carriera di allenatore iniziata nel settore giovanile dell’Arezzo, che ricordi ha?
«Ho allenato diversi settori giovanili in provincia, oltre quello Amaranto. Sono state le esperienze più belle, perché vedere un ragazzino che si trasforma prima in adolescente e poi in adulto è straordinario. Loro sono i custodi del sogno del calcio».

La società amaranto ha vissuto varie vicissitudini in questi ultimi anni, societarie e sportive. Vista da fuori che impressione le ha fatto?
«Di grande difficoltà. L’ottanta per cento delle società di serie C è in difficoltà e l’Arezzo non fa eccezione. A me dispiace che l’Arezzo non abbia uno stadio nuovo per accogliere i tifosi, che in questi anni non abbia potuto comprare due campi di allenamento e che, se è vero quello che ho letto sui giornali, è retrocesso dopo avere speso 5 milioni di euro, cambiando 3 allenatori, 3 direttori sportivi e con 60 calciatori. Le intenzioni di base erano sicuramente buone, ma la scelta dei collaboratori si è rivelata pessima».

A parte i settori giovanili di Arezzo prima e Montevarchi poi, lei ha sempre allenato all’estero, scelta od obbligo?
«Quando ho deciso di andare all’estero il calcio italiano stava cambiando, l’allenatore diventava sempre meno importante e stavano entrando dei personaggi che avevano poco a che fare con il gioco: volendo trasformare la mia passione in lavoro non avrei potuto farlo qui. Ho avuto la possibilità di iniziare a fare l’allenatore all’estero e così sono cresciuto passando da un’esperienza a un’altra. Un meccanismo che mi ha motivato al massimo, con giocatori sempre più forti, così non mi sono mai posto la domanda del perché all’estero sì e in Italia no. Una porzione di destino, un’altra di opportunità. Alla fine qui non ho mai trovato una proposta seria, con un progetto che mi permettesse di esprimermi, quindi alla fine possiamo dire che è stata pure una scelta obbligata, diventando un percorso naturale che mi ha arricchito calcisticamente e personalmente, oltre ogni più rosea aspettativa».

Ha conseguito i patentini Uefa a Coverciano, è corretto definirla l’università del calcio?
«Sì. In Italia c’è una grande studio di partenza. A Coverciamo si affronta la tattica a 360 gradi, ma pure la tecnica e tutti gli aspetti psicologici correlati al gioco del calcio. Niente è lasciato al caso e ci si può confrontare con i colleghi stranieri».

Perché per lei, come per molti suoi colleghi, è più facile allenare all’estero che in Italia?
«Per molti anni sono partiti solo gli allenatori top, poi quando il mercato italiano è diventato saturo hanno iniziato ad andare all’estero anche tecnici di serie B e serie C. All’estero, però, ci sono due mondi. Se vai al Chelsea piuttosto che al Bayern Monaco è tutto più facile, tra infrastrutture di prim’ordine, collaboratori di altissimo livello, organizzazione. Diverso è il discorso se vai in Grecia piuttosto che a Cipro, qui è tutto molto più difficile».

Quali sono le zone grigie del calcio tricolore?
«Non siamo stati lungimiranti, prima di tutto nelle strutture. Abbiamo gli allenatori, abbiamo avuto e abbiamo ancora, l’Europeo vinto lo dimostra, generazioni di grandi giocatori, però i nostri stadi sono tra gli ultimi in Europa. Gli stranieri è la prima cosa che mi dicono, sono stupiti dalla nostra arretratezza rispetto agli impianti di Francia, Germania e Inghilterra, per esempio, senza contare i centri di allenamento federali e quelli dei club. In secondo luogo tutti ne parlano ma quasi nessuno investe seriamente nei settori giovanili. Al Wolverhampton ogni squadra aveva 7-8 collaboratori con infrastrutture di prim’ordine e un ottimo scouting. In Italia, invece, abbiamo smesso di investire nei giovani».

All’estero c’è maggiore meritocrazia?
«Il calcio è lo sport più meritocratico che esista, ma per un allenatore è diverso. Devi avere una società solida alle spalle, un organico all’altezza, un buon rapporto con il direttore sportivo, altrimenti è difficile esprimersi. In Italia, troppo spesso, il ds prende l’amico come allenatore. Faccio un esempio. Sono stato contattato da una squadra statunitense che gioca nell’Usl. Il presidente è un amico personale dell’agente che mi ha chiamato e mi ha detto che ho un curriculum ottimo, che gli piace che sia italiano, i titoli vinti e così mi hanno sottoposto a una videointervista, prima che tutto questo venisse sottoposto al ceo del club; un approccio altamente professionale».

In questi anni ha alternato panchine da titolare con il ruolo di secondo di Walter Zenga, che rapporto ha con l’ex portiere della Nazionale? E quali differenze ci sono tra i due ruoli?
«Walter è una persona che mi piace tanto, sempre all’avanguardia, molto professionale, un grande studioso di calcio sempre aggiornato e che, purtroppo, è valutato più come personaggio pubblico che come allenatore. Per lui dovrebbero parlare le squadre che ha allenato e i punti che ha fatto, ma non godendo di buona stampa e non avendo gli ‘sponsor’ giusti è dovuto andare all’estero. Nel 2010 ho vinto il campionato libico con l’Al-Ittihad ma avevo bisogno di confrontarmi per crescere, capire cosa mi mancasse per essere un allenatore capace e con Walter Zenga mi sono trovato benissimo, anche perché fuori del campo è una bella persona, alla mano e informale, un amico. Ho osservato molto il suo modo di allenare e di confrontarsi con gli altri, per esempio Mourinho, sul possesso palla per poi provare e riprovare in campo certi schemi e determinati atteggiamenti. Quando le personalità sono molto forti puoi solo osservare più che copiare, avvicinandoti a quel tipo di gestione del gruppo, in allenamento e in partita. Inoltre le nostre personalità si completano. Lui cerca l’empatia con il gruppo, incide in maniera forte da subito sulla squadra, è più diplomatico di me. Lavorando insieme ci siamo sempre confrontati, ma il mio ruolo era quello di aiutarlo a vincere, coordinando il lavoro, facendo di tutto. Il secondo è un ruolo diverso, si impara molto, ma devi capire quali sono i confini che non devi mai superare. Tu devi sapere tutto, dal cambiamento di orario alla disponibilità del materiale, per informare l’allenatore che deve avere la situazione sempre sotto controllo».

Africa, Bulgaria, Inghilterra, Sud Africa, Cipro e, soprattutto, Medio Oriente, qual è il calcio migliore secondo le sue esperienze?
«Ci sono parametri diversi. Se parliamo di infrastrutture l’Inghilterra è il top. Ma le esperienze migliori le ho fatte quando mi sono arricchito emotivamente. Quando lavori con un club devi contribuire a fare crescere la squadra, a migliorare i giocatori, a vincere. Dal punto di vista umano le esperienze in Libia e Palestina mi hanno dato tantissimo».

Un campionato libico con l’Al-Ittihad e ben quattro coppe con i palestinesi dell’Ahli al-Khalil. Qual è stata la vittoria più importante? E quella che ricorda con più entusiasmo?
«La vittoria più importante è stata quella con i libici dell’Al-Ittihad. Due milioni di tifosi solo a Tripoli, uno stadio con 80mila persone, una rosa con una decina di giocatori della Nazionale. Vincere lì era un obbligo, ma la squadra andava rifondata, c’erano 5-6 calciatori da cambiare e nessuno con il coraggio di farlo. Io e il mio staff lo abbiamo fatto e abbiamo vinto, tutto in una stagione. Quella più entusiasmante in Palestina con l’Ahli al-Khalil. Quando siamo arrivati veniva da anni di bassa classifica. Insieme con il preparatore atletico Gian Luca Sorini, abbiamo portato nuovi modi di allenamento, soprattutto grazie a lui, abbiamo ricostruito un intero ambiente e siamo riusciti a vincere tutto (2015, ndr), portando la squadra in Champions League. Ma non dimentico l’anno al NQSA Acada Sports in Camerun, dove formavamo gli allenatori locali che una volta tornati nei villaggi ripetevano le cose che avevano imparato da noi. Oppure l’esperienza con la Repubblica del Congo Under 20 e quella Olimpica, dove non c’erano campionati giovanili, riuscendo a mettere insieme una trentina di calciatori dai diciotto ai diciannove anni, sui quali hanno potuto costruire il futuro».

Ha allenato molti anni in Palestina, che calcio e che mondo ha trovato?
«Conoscevo la Palestina solo mediaticamente. Ero curioso e avevo voglia di condividere quello che avevo imparato dalle esperienze precedenti. Ho scoperto un mondo bellissimo e un popolo paziente, il più paziente che conosca. Se incontri qualcuno per strada ti porta a casa a prendere il tè, hanno voglio di parlare con gli stranieri e di aprirsi al mondo. Calcisticamente ho trovato tanta passione ma poche infrastrutture, i giocatori sono fantastici e hanno un’intensità pari a quella inglese: nel campionato palestinese le partite sono delle battaglie per tutti i novanta minuti. Il livello tecnico è discreto, ricordo quando nel 2015 affrontammo Atalanta e Bologna in amichevole, tenendo il campo e facendo la partita. In Palestina vinci se crei l’alchimia giusta, se comprendi la loro cultura, solo allora riesci a farti seguire e a portare i giusti cambiamenti nell’approccio all’allenamento e alla partita».

Quali difficoltà ha incontrato?
«Pochi campi di allenamento. Può accadere che due squadre di serie A debbano dividerselo con tutte le difficoltà del caso nella pianificazione del lavoro. Oltre alle difficoltà gestionali ci sono quelle dovute agli spostamenti. Quando c’ero io la situazione era abbastanza tranquilla ma avevo un calciatore che veniva da Gerusalemme ed era sempre in ritardo perché lo bloccavano al checkpoint. Se, però, mi fossi fatto demoralizzare da certi inconvenienti non avrei mai potuto allenare in Africa e in Medio Oriente».

Al netto dei disagi sociali ed economici che ne condizionano la maturazione sportiva, un calciatore palestinese potrebbe giocare in serie A?
«Ci sono giocatori potenzialmente molto forti che potrebbero giocare in serie B come in serie A. Ci sono calciatori palestinesi che giocano in Egitto piuttosto che nei Paesi del Golfo e fanno la Champions africana piuttosto che quella asiatica. In Italia si guarda soprattutto ai giocatori comunitari e non c’è una grande cultura di quelli mediorientali. Musa Al-Taamari, ventiquattro anni, è un centrocampista della Nazionale giordana, cresciuto nello Shabab Al-Ordon è passato all’Al-Jazira, poi due stagioni all’APOEL Nicosia e dall’anno scorso in Belgio, all’OH Lovanio; nel 2019 è stato eletto miglior calciatore del campionato cipriota. Anche l’Ajax si è interessato a lui. Basta cercare, lasciandosi alle spalle i luoghi comuni e andando a vedere dal vivo gli atleti; lo scouting da poltrona lascia il tempo che trova».

Ha dovuto imparare l’arabo o se l’è cavata con francese e inglese?
«Con l’inglese. I giocatori dei Paesi del Golfo lo parlano e in Palestina il capitano lo parlava così mi faceva da traduttore con i compagni di squadra. Traduceva sia i discorsi motivazionali al gruppo che quelli al singolo giocatore, per me era importante farmi capire e volevo essere sicuro di questo. Con il tempo ho imparato anche un po’ di arabo, 3-400 parole».

Alcune sue avventure si sono interrotte bruscamente, da cosa è dipeso?
«Da tante cose diverse. In Sud Africa mi ero accordato con il presidente dei Black Leopards F.C. L’incontro a Johannesburg è stato molto buono, loro erano appena stati promossi in serie A e volevano crescere. La squadra, però, giocava da un’altra parte ed era gestita dal figlio. Potevo accettare e stare lì tre anni con un contratto importante, ma quando ho capito che nessuno ci avrebbe seguiti ho preferito lasciare. Io non lavoro tanto per lavorare, lavoro per costruire qualcosa, per lasciare il segno e lì non c’erano le condizioni per farlo. A Cipro, con l’Ermis Aradippou, abbiamo preso la squadra ultima in classifica e abbiamo iniziato a inanellare un risultato positivo dopo l’altro. Il presidente era una brava persona ma affidava tutto a troppi consiglieri che non si mettevano mai d’accordo. Io chiedevo un giocatore e mi arrivava quello sbagliato che non era utile al progetto. A quel punto ho deciso di dimettermi perché avevo capito che non saremmo arrivati da alcuna parte. Sarà un caso ma poi il club è retrocesso in serie B, perché quando la società non è solida, quando non ha esperienza, quando non fa quello che serve per migliorare il risultato è scontato».

Quali sono le qualità che un calciatore professionista deve assolutamente avere?
«Gestire bene le difficoltà e ripetere prestazioni di alto livello. Ovviamente il talento e la professionalità, elemento sul quale i giocatori oggi sono migliorati parecchio. Ma dare continuità alle proprie prestazioni è fondamentale e lo si fa con una mentalità forte, ponendosi ogni giorno nuovi obiettivi. Basti guardare CR7 che alla sua età si allena come se ancora dovesse vincere tutto, condizionando l’alimentazione e tutto lo stile di vita».

Cosa non riesce proprio a sopportare in un giocatore?
«L’atteggiamento. A me piacciono i giocatori propositivi che si mettono a disposizione della squadra. Odio chi gioca per sé stesso, chi non fa gruppo, perché capisco subito che non è dentro il progetto. Esempi? Quando un calciatore della Prima squadra prende a male parole un ragazzino della Primavera, o quando perde palla e non rincorre l’avversario; allora intervengo con molta decisione. L’errore fa parte del gioco e lo accetto, ma non posso accettare la mancanza di voglia di migliorarsi».

Che rapporto cerca di instaurare all’interno dello spogliatoio?
«Per vincere la cosa più importante è l’alchimia che si crea dentro un gruppo, al di là della preparazione atletica e di quella tecnica. È importante parlare con i giocatori, sapere chi sono, cosa fanno fuori dal campo, qual è la loro situazione familiare, perché più cose sai più capisci le loro prestazioni e solo allora puoi intervenire per correggerli senza umiliarli. Per vincere tutto il gruppo deve andare nella stessa direzione, quindi si devono conoscere pregi, difetti e limiti di tutti, anche dei componenti lo staff tecnico. In una stagione le difficoltà da affrontare sono tante, ci sono le critiche, c’è da migliorarsi e tutto questo si fa se c’è sintonia e se c’è la giusta comunicazione, di gruppo e con i singoli. Allora, e solo allora, possono arrivare i risultati».

Si dice che i giovani italiani hanno meno fame degli stranieri, è vero o c’è dell’altro in un movimento che fatica a rigenerarsi?
«Non credo. Io penso che in Italia ci siano tanti giocatori che hanno fame, voglia di esprimersi, ma per venire fuori hanno bisogno di strutture, confronto e opportunità. Un giovane deve sapere dove vuole arrivare, come correggere gli errori e, al tempo stesso, deve essere libero di sbagliare. Io vedo pochi dribbling, pochi che si prendono delle responsabilità in campo, a certe età bisognerebbe curare più il singolo e meno l’organizzazione tattica, ci dovrebbe essere personale altamente qualificato, capace di lavorare con i più giovani, servono allenatori che si dedichino completamente ai ragazzi e non ai risultati. Al loro fianco esperti dell’età dello sviluppo per capire a fondo l’aspetto fisico e quello psicologico mentre crescono facendo sport».

Qual è secondo lei lo stato di salute del calcio italiano e da dove dovrebbe iniziare per migliorarsi?
«La Nazionale, campione d’Europa, ha espresso valori eccezionali, giocando un calcio moderno, fatto di possesso palla e scarico, possesso palla e attacco dello spazio. Tutto merito di Mancini che ha saputo intuire le potenzialità di calciatori che non giocano ai massimi livelli del football europeo. Alcuni di loro erano ai margini del proprio club e adesso tornano più carichi e pronti che mai. Abbiamo stupito il mondo. Detto questo il calcio italiano continua ad avere bisogno di infrastrutture e vera cura dei settori giovanili, perché, come storicamente dimostrato, le vittorie della Nazionale non cambiano il movimento alla base. Senza dimenticare che dobbiamo affrontare la grave crisi provocata dal Covid-19 nel calcio dilettante, i vivai, il sistema calcio italiano inizia da lì, nei club dilettanti nascono i giocatori che andranno un giorno in serie A, se si dovesse bloccare questo meccanismo sarebbe un problema enorme. Infine una nota sulla serie A, molto tattica e poco intensa. Troppe squadre giocano a basso ritmo e poi quando vanno in Europa trovano difficoltà e soffrono contro formazioni che corrono il doppio».

Le piacerebbe allenare una squadra italiana? Se sì, quale?
«Sinceramente non c’ho mai pensato e non saprei dirti quale. Posso dirti, però, che mi piacerebbe allenare in un grande settore giovanile, ben organizzato, tipo quello dell’Empoli».

Cosa ne pensa della diatriba sul tiki-taka?
«Bisogna capire a cosa serve il tiki-taka. Se è possesso sterile ne penso male, se invece è un sistema che coordina undici giocatori per arrivare dall’altra parte del campo e fare gol, come un mezzo per fare correre l’avversario a vuoto e stancarlo, per mettere gli attaccanti nella posizione giusta per verticalizzare, ne penso bene. Muovere la palla, controllare il gioco, saper leggere i momenti della partita è fondamentale nel calcio di oggi. A volte puoi farlo, a volte ti devi difendere e devi sapere fare entrambe le cose, come ha dimostrato l’Italia di Mancini. Vale lo stesso discorso per la costruzione dal basso. Su questi argomenti si fa troppa filosofia. Ci vuole elasticità mentale, bisogna capire le qualità intrinseche ed estrinseche dei calciatori a disposizione e comprendere che tipo di gioco si può fare. Il ‘copiaincolla’ del guardiolismo o del sarrismo è pericoloso e controproducente. Ogni squadra ha equilibri diversi e vince l’allenatore che è capace di sfruttare al cento per cento le peculiarità dei propri giocatori».

Ha ragione Allegri quando dice che il calcio è semplice oppure è anche quello un modo per nascondersi?
«Allegri dice che il calcio è semplice quando risponde ai giornalisti dopo prestazioni negative della squadra e quando le analisi dei media anno matrici diverse da quella tattica. Ho letto il suo libro, lui è un tecnico pragmatico che cerca di rispondere alla domanda: io voglio vincere, qual è il sistema migliore per farlo con i giocatori che ho a disposizione? Poi il calcio è semplice in apparenza. È uno sport molto complesso, fatto di tantissime componenti, nel quale devi gestire la mente di tante altre persone. Allegri, per esempio, ha una lettura della partita fantastica, è capace di vincerla negli ultimi venti minuti con i cambi giusti, naturalmente devi avere anche la panchina per poterlo fare. Senza dimenticare che esistono due tipi di velocità, quella fisica e quella mentale, quando un giocatore sa essere al posto giusto nel momento giusto vale quanto uno che corre come un velocista».

Quali sono il suo calcio e il suo modulo ideali?
«Se ho i giocatori per poterlo fare, il 4-3-3 con tagli e inserimenti. Se fatto bene rende la squadra imprevedibile. Ma con il Camerun Under 20, per esempio, avevo tre centrali forti così lo schierai con il 3-5-2, altre volte ho fatto il 4-2-3-1 o il 3-4-3, a seconda del materiale umano a disposizione. Ci sono poi dei principi comuni. Se recupero palla più vicino alla porta avversaria avrò più possibilità di fare gol e mi stancherò meno che se la recupero a sessanta metri di distanza. In fase di non possesso tutti i giocatori devono essere impegnati nella fase difensiva, in fase di possesso in quella offensiva. Avere un centrale che si stacca e imposta il gioco, per l’imbucata o la verticalizzazione efficacie. Possesso palla. Ovviamente tutto questo va saputo fare, sia dal singolo che dal gruppo, all’unisono. E, comunque, una squadra si costruisce partendo sempre dalla difesa».

In questo sport si può inventare ancora qualcosa o siamo al tutto già visto?
«Credo che si possa sempre inventare qualcosa di nuovo, inserire delle modifiche, avere delle intuizioni. Ma tutto questo lo fai quando hai lo spogliatoio nelle tue mani, se non conquisti il gruppo non puoi fare niente, perché nessuno ti seguirà. In questi anni, in giro per il mondo, ho visto tante cose divertenti. Ricordo quando in Inghilterra, con il Wolverhampton, abbiamo affrontato l’Huddersfield Town allenato dal tedesco David Wagner. In fase di possesso schierava sei giocatori sulla linea di centrocampo, con due attaccanti esterni, impostando con tre più uno. Nel mezzo era difficile andare a prenderli, occupavano bene gli spazi, se attaccavi la palla uno si staccava e gli altri aggredivano la profondità, erano tutti molto veloci, anche dietro, e così ti beccavano a campo aperto. Se aspettavi facevano girare palla finché non trovavano l’imbucata. Ed esempi come questo ne potrei fare tanti, con varie sfumature. Il calcio è fatto dagli uomini, che si evolvono e cambiamo nel tempo. Per quello che ho visto io il football negli ultimi dieci anni è cambiato molto».

Qual è il giocatore più forte che ha allenato? E quello più carismatico?
«Luca Toni. Mi ha colpito perché sapeva sdrammatizzare ogni situazione, soprattutto prima dell’inizio della gara, poi in campo si batteva sempre con grande fisicità e grande spirito di sacrificio; ne ho apprezzato, soprattutto, la professionalità e come si sapeva gestire. Il portoghese Hélder Costa, centrocampista offensivo portoghese, piede raffinato e qualità eccelsa. Conor Coady, centrale difensivo nel giro della Nazionale inglese, un gregario con grandi qualità umane, capace di trascinare il gruppo in allenamento come in partita, un giocatore fondamentale. Per leadership ne potrei citare una ventina, come l’allora capitano dell’Al-Ittihad di Tripoli, silenzioso, aveva un grande ascendente sul gruppo che guidava con lo sguardo».

La sua vita da allenatore sembra costellata da un’avventura dietro l’altra in Paesi lontani e anche complessi da decifrare. Rifarebbe tutto da capo o, con il senno di poi, cambierebbe qualcosa del suo percorso?
«Credo che le esperienze negative ti insegnino più di quelle positive, quindi rifarei tutto da capo, senza rimorsi e rimpianti, fiero e orgoglioso. Quello che mi è accaduto in Sud Africa, per esempio, mi ha insegnato che prima di firmare un triennale devi capire bene come funziona un club, chi lo guida, come è organizzato. Ho allenato in tredici Paesi diversi, più di 300 giocatori professionisti, ho avuto la fortuna di lavorare con Walter Zenga e tutto questo è stato un arricchimento pazzesco, sia dal punto di vista professionale che umano. Alla fine, per me, allenare in Italia è molto più facile. Parli la tua lingua, conosci la cultura tattica e gli imprevisti sono molto diversi».

Cosa ha sacrificato in venticinque anni di carriera?
«Mio figlio Mirko, che oggi ha 24 anni e gioca a calcio. Non avevo scelta, ma quando era molto piccolo ti assicuro che salutarlo all’aeroporto, mentre piangeva e mi supplicava di non partire, è stata molto dura. Io l’ho fatto per avere e dargli un futuro migliore e senza sacrifici non si raggiungono obiettivi importanti. Adesso ne ho uno di pochi anni (Marko, ndr) e quando ero in Iran tutte le sere potevo videochiamarlo; con la tecnologia è diverso, prima c’era solo il telefono».

Cos’è oggi il calcio per Stefano Cusin?
«Voglia di migliorarsi con amore e dedizione. La voglia di fare crescere un giocatore e condividere in allenamento quello che hai imparato sui campi di mezzo mondo. Fino a che avrò le motivazioni, finché non vedrò l’ora di preparare gli esercizi per le sedute, finché passerò ore ad analizzare dati e avversari, vorrà dire che il calcio è ancora il mio vestito migliore, il mio posto nel mondo».