Rosi Collection è il marchio aretino di cravatte, pochette, papillon e sciarpe. Dal 1973 a oggi, una storia familiare che Stefano Rosi ha trasformato in un’azienda globale

Indossare la cravatta può essere una divisa come una filosofia di vita, riflette l’immagine di sé, aiuta a definire un’identità, un dettaglio che può illuminare una personalità. Secondo alcuni la cravatta è ciò che resta del mantello di una volta. C’è chi la fa risalire addirittura alla striscia di stoffa indossata dai legionari romani, ma più realisticamente alla Guerra dei trent’anni, quando i mercenari croati, in servizio in Francia, indossavano i loro piccoli foulard. Il 18 di ottobre in Croazia, come a Dublino, Tubinga, Como, Tokyo e Sidney, per citarne alcune, si festeggia la Giornata Internazionale della Cravatta.
Stefano Rosi, titolare di Rosi Collection, non può farne a meno e si reca al lavoro spesso in giacca e, appunto, cravatta, lui che il mestiere l’ha imparato in casa, dal padre e dalla madre che nel 1973 avevano aperto l’azienda – un piccolo laboratorio ricavato tra le mura domestiche – quando aveva solo 8 anni: abbastanza per innamorarsi di un lavoro e dei suoi procedimenti, iniziando a imbustare le cravatte, perché voleva partecipare alla fase produttiva; entrandovi definitivamente nel 1983, due lustri dopo, con la maggiore età e una consapevolezza e un know-how di prim’ordine.

“In tutti questi anni – racconta – sono cambiate tante cose. Ricordo l’avvento della produzione d’oltralpe e poi di quella cinese che ci hanno costretti a trasformare la nostra, rendendola ancora più sartoriale, allargandoci ad altri prodotti oltre le cravatte. Dagli anni Novanta a oggi abbiamo puntato tutto sul Made in Italy e sulla qualità, sia delle materie prime che della lavorazione”.

Un’azienda familiare che oggi ha 6 dipendenti più i fasonisti e l’indotto. E se vogliamo mettere in fila un po’ di date: 2007 lo spostamento dell’azienda in via Ernesto Rossi, la sede attuale; 2012 l’esposizione della collezione a Pitti e l’affaccio sul mercato internazionale, dall’Europa al Nord America, dalla Russia all’estremo Oriente; 2015 la nascita del nuovo marchio Rosi Collection. Oggi una parte importante della produzione è per brand di alto livello, oltre a mantenere il proprio e una distribuzione tramite showroom internazionali.

“Qui facciamo progettazione, taglio e magazzino, il resto lo fanno i fasonisti esterni. I tessuti sono tutti italiani. La seta viene dal distretto di Como, il principale polo mondiale del tessuto serico, lana e cashmere da quello di Biella. L’ispirazione nasce dentro di noi, è un misto di ricerca e intuizione, qualcosa che abbiamo naturalmente.

A volte le migliori soluzioni riesco a vederle quando vado in bicicletta, nel tempo libero: in quei momenti riesco a pensare spontaneamente, mi guardo intorno, vedo la natura, le sue forme, i suoi colori, le proporzioni e prendo ispirazione da tutto questo. Ho iniziato imbustando le cravatte e tagliando il tessuto, ma non ricordo qual è stata la prima cosa che ho realizzato: però ricordo la passione, che ho ancora oggi e che mi ha permesso di acquisire, passo dopo passo, la creatività necessaria per portare avanti l’azienda di famiglia”.

“I giovani si stanno riappropriando del bello e del bel vestire Oggi anche l’uomo vuole scegliere, vuole prodotti di qualità”

Ma la moda, si sa, è mutevole come i gusti delle persone e qualche volta basta una tendenza per cambiare tutto il mercato: “Negli anni Novanta Versace scrisse il libro L’uomo senza cravatta. Armani portava la t-shirt sotto la giacca, creando uno spartiacque tra formalità e informalità, l’idea di essere comodi e al tempo stesso presentabili. Questo ci ha spinti ad allargare la nostra produzione: dalle cravatte alle sciarpe, dalle pochette ai papillon. Anche se per me la cravatta resta un must dell’abbigliamento, soprattutto maschile: ci rende più belli. So che questo accessorio ha richiamato e richiama la formalità, pure la divisa se vogliamo, ma io credo che sia tornato il momento di indossare la cravatta per il piacere di farlo e non per dovere, come scelta e non come obbligo. Quando ero giovane ho pensato più volte di fare un lavoro poco significativo, poi ho riflettuto sul concetto di bello: la bellezza formale implica sempre grandi valori. La cravatta oggi rappresenta un esempio di bellezza che è estetica al primo impatto ma che vuole essere altro, nel profondo di ognuno di noi”.

“I giovani di oggi, che non hanno vissuto l’epoca del vestire formale come imposizione, si stanno riappropriando del bello e del bel vestire. Io non ho figli, ma nipoti che mi chiedono come si fa un nodo alla cravatta, come si porta una pochette, come si fa il fiocco al papillon. Non è facile fargli capire l’importanza di certi accessori, ma sono curiosi e la curiosità è la prima spinta. Mi chiedono perché portarli e io rispondo semplicemente: ‘perché vi rende più belli’. C’è una nuova attenzione ai colori e ai tessuti, alla loro qualità. Una volta queste sensazioni erano esclusivo appannaggio culturale delle donne, oggi invece anche l’uomo vuole scegliere e vuole prodotti di qualità, morbidi al tatto: l’esplosione del cashmere va in questa direzione, per esempio”.

Tra le tante asperità che l’industria dell’abbigliamento ha incontrato in questo ultimo quinquennio, il Covid-19 ha purtroppo un posto d’onore: “È stato devastante. Non solo per il mercato ma, soprattutto, per le abitudini delle persone. Lo stare in casa, comodi, in modo informale. Noi, nel periodo più buio, abbiamo iniziato a produrre mascherine che avessero pure un senso estetico, ma alla fine non ci siamo mai fermati, così nel 2020 siamo andati ugualmente a Pitti: eravamo solo 50 invece che i soliti 2mila, ma siamo stati premiati per la nostra determinazione. Il mercato è tornato a crescere e ci sta dando grandi soddisfazioni”.

Il futuro, soprattutto in questo settore, è difficilmente prevedibile: “I cicli sono diventati così veloci e i cambiamenti così repentini che programmare per quinquenni è veramente arduo. Una volta, forse, si poteva fare, oggi no. Noi continueremo sulla nostra strada, convinti che gli accessori per uomini restano e resteranno indispensabili, perché si può vestire sportivi per 360 giorni l’anno, ma ci sono poi quelle cinque occasioni in cui si vuole essere impeccabili e, magari, riconoscibili: un party, una festa, un evento. I giovani sono tornati a sposarsi e tutti si vogliono vestire bene per un’occasione del genere, indifferentemente dall’età”.

Stefano Rosi è un ottimista e non lo nasconde: “Se non lo fossi sarebbe stato tutto più difficile. Nel mondo del lavoro si devono mostrare certezze e dare immediate risposte come ho sempre cercato di fare anche se, con un po’ di autostima in più, avrei potuto ottenere risultati maggiori”.

“Per affermare la propria autorevolezza in un gruppo bisogna credere nelle proprie idee e al contempo confrontarsi con i propri collaboratori”

Tra le sue passioni c’è il ciclismo, che in realtà è molto di più: “La bici mi aiuta a riordinare i pensieri, mi ossigena il cervello e da lì poi, grazie alla passione, partono le idee, a volte quelle più importanti. Il ciclismo mi aiuta ad allentare la tensione, a rendere meglio quando sono in azienda, è un connubio perfetto. Di contro quando salgo in sella porto la determinazione e la continuità che mi hanno sempre contraddistinto professionalmente”.
“Valori importanti in cui ho sempre creduto sono anche il confronto, la condivisione, l’ascolto: in questo senso una persona importante nell’indirizzarmi verso questo mestiere in un momento fondamentale è stato il sarto, concittadino, Carlo Donati con cui mantengo un forte legame. Quello che io considero il terremoto cinese nelle confezioni, infatti, l’ho superato grazie ai suoi suggerimenti e, a oggi, il mio core business restano gli accessori per uomo, in particolare, cravatte, pochette e sciarpe, un core che non abbandonerò mai”.
Una citazione che dice molto di Stefano Rosi: innanzitutto che è una persona che sa riconoscere la qualità negli altri, cosa rara in ogni ambiente professionale, mediamente competitivo, oggi in modo particolare: “Ho sempre lavorato con passione e nel pieno rispetto degli altri. Riconoscere e riconoscersi nel lavoro è importante”.
E i dipendenti come la vedono?
“Bisognerebbe chiederlo a loro. Per affermare la propria autorevolezza in un gruppo bisogna credere nelle proprie idee e, contemporaneamente, confrontarsi con i propri collaboratori: noi siamo una famiglia che tutti i giorni fatica gomito a gomito da anni. In questo piccolo gruppo ho riportato, riuscendo a mantenere, i valori che mi hanno trasmesso mio padre e mia madre, sia quelli professionali che umani. Sono un altruista, attento ai bisogni altrui, siamo solidali con chi ha meno di noi e ci crediamo”.
Cos’è per lei questa azienda?
“Mia figlia”, e lo dice guardandosi intorno con occhi sognanti.