L’album di inediti, il secondo romanzo, il podcast, le collaborazioni con artisti importanti. E poi il successo, l’alcol, una storia d’amore finita all’improvviso, Milano e i social in cui mettersi a nudo, Ermal Meta e J-Ax, Emis Killa e Fedez, Er Faina e i Negrita. Intervista al cantautore aretino, che ha sfruttato l’isolamento e il lockdown per dedicarsi a una nuova creatività. E alle soglie del quarantesimo compleanno ha capito che vivere senza contrasti è l’unica cosa che lo fa stare bene veramente

Tre album e un romanzo già pubblicati, collaborazioni con artisti importanti (Negrita, Ben Harper, Club Dogo, Cranberries, J-Ax), una partecipazione a Sanremo, il prestigioso premio Bardotti per il miglior testo del festival nel 2013, una bella dose di successo assaporata, metabolizzata, goduta. Lorenzo Cilembrini non è morto a vent’anni, come cantava agli esordi, e anzi si avvia verso i quaranta con spalle larghe e certezze più solide. Cantautore, scrittore, musicista, il Cile ha conservato lo pseudonimo che lo accompagna da quando viveva bambino in un’Arezzo di provincia, verso cui odio e amore si mischiavano allora e si mischiano anche oggi. Anche se l’amore, crescendo, ha preso campo.

A che punto è la tua vita, Lorenzo?
Sono più maturo, più consapevole. Gli anta non mi spaventano: Pau e i Negrita, più o meno a quell’età, hanno scritto quello che ritengo il loro album più bello, HELLdorado. Non ho timori.
Eppure ti sei sempre definito un ipocondriaco tu.
Discorso lungo. La verità è che ho imparato a essere multitasking, faccio cose che prima non facevo, ho modificato il mio stile narrativo. Cemento armato, il mio singolo d’esordio, mi aveva risucchiato i dieci anni precedenti. Ora no, sono più distaccato, più ironico.
E’ l’età che ti ha cambiato?
L’età, le esperienze, la vita. Prima nei testi mettevo troppa nostalgia. Adesso, parafrasando Monicelli, penso che la nostalgia sia una trappola. Mi infilo i paraocchi e mi obbligo a guardare avanti, come i cavalli. E’ un periodo così, non saprei come definirlo.
Provaci.
Direi diverso. Ho avuto la fortuna di provare quasi ogni situazione in carriera, dall’Alcatraz a San Siro strapieno. Ho capito che non possiamo essere tutti Vasco. E non è il dove che conta, è il come.
Pandemia, lockdown, coprifuoco ti hanno messo ansia?
E’ stato un anno rubato, alienante e per molti versi lo è ancora. Un salto nel vuoto. Spero che con i vaccini si torni alla normalità. A me, a quelli che fanno il mio mestiere, a quelli che lavorano con noi e per noi, la normalità manca moltissimo.

Hai fiducia nella scienza? O ti è venuto qualche dubbio?
Ho sentito tutto e il contrario di tutto su questo covid. La verità vera la conosceremo tra qualche tempo e ho diverse domande senza risposta. Penso che se è saltato in aria un reattore nucleare a Chernobyl, può pure essere sfuggito un virus da un laboratorio. Comunque sì, ho fiducia nella scienza, ci mancherebbe. Anche perché qui a Milano, dove abito dal 2015, abbiamo toccato il dramma con mano.
Milano è la città con la folla senza distanziamento sui Navigli. Con piazza del Duomo stracolma di tifosi per lo scudetto dell’Inter. Però niente concerti. Ermal Meta ha scritto di sentirsi preso per i fondelli.
Ha ragione ma è sempre la stessa, vecchia storia. Il problema vero è che doveva essere un nostro sindacato a tutelarci, non lui. La musica è considerata accessoria, è una grande stronzata.
Il vostro settore è stato trascurato?
Sì. Dietro ogni artista c’è un mondo: tecnici, fonici, service per i concerti. Chi vive di serate è in difficoltà e di aiuti ne ha ricevuti zero. Una cosa alla fine l’abbiamo capita: senza i live non c’è musica. E’ come il calcio senza pallone.
Senza live cosa hai fatto in quest’anno così tribolato?
Ho scoperto nuovi lati creativi di me stesso. Ho cominciato a suonare con la Finnicella Band. Ho dato avvio al mio podcast che si chiama Uskebasi. Vedo che piace, ne sono orgoglioso. Poi ho collaborato come autore con altri artisti che mi hanno chiesto un aiuto. Ci sono anche colleghe che stimo.
Nomi?
Ancora non posso. In passato avevo lavorato con Bianca Atzei e Syria, mi sento molto arricchito da queste esperienze.
E’ vero che è sta per uscire il tuo secondo libro dopo Ho smesso tutto del 2014?
Sì, vero. E’ un romanzo alla Wu Ming, scritto con un collettivo e ambientato nelle campagne toscane del 1998.
E la musica?
Ho un disco pronto da mesi che sta diventando sempre più voluminoso. Da settembre cominceremo a pubblicare i singoli. Sono tornato al rock con una punta di modernità, è da quando sono bambino che volevo fare un album sull’alienazione della società. Diciamo che è un’analisi del tormento in chiave satirica, modello Rino Gaetano.

Di recente hai scritto che non tutti possono esprimere la propria opinione su tutto, con la presunzione di avere ragione e di avere capito esattamente di cosa stiano parlando. Con chi ce l’avevi?
Con gli adulti che inquinano il rapporto dei giovani con i social e con le fonti a cui si approvvigionano. Nanni Moretti diceva: “io non parlo delle cose che non conosco”. La penso come lui, a me questa roba fa schifo. Fosse per me, nemmeno i politici dovrebbero utilizzare i social.
Pensi sempre ai politici come “iene ghignanti”?
Sì. Sono politicamente ateo da quando ho vent’anni. Non voterò nemmeno la prossima volta, troppe delusioni.
Ti delude anche il politically correct? Emis Killa c’è andato giù duro, secondo lui non ci si può sentire offesi per qualsiasi cosa.
E’ rimasto un ragazzo di quartiere, ha un carattere che prende fuoco in fretta. Quello che gli passa per la testa, lo dice. Preferisco di gran lunga lui, che sta migliorando la sua scrittura, che impara a suonare il pianoforte, a un coglionazzo come Er Faina, un pupazzetto che si è creato una sua nicchia di consenso per tirare su due soldi.
A proposito di attualità. Di Fedez che attacca la Rai che idea ti sei fatto?
Che ha ragione ma a volte è troppo ingenuo, non percepisce l’amplificazione che hanno i suoi gesti e le sue parole. Non dubito della sua sincerità, però è fisiologico che il pubblico lo metta davanti alle sue contraddizioni.
Torniamo a te. I tuoi testi sono sempre un mix di ricerca e spontaneità. Il segreto qual è?
Nessun segreto, la scrittura è il mio grande amore da sempre. Scrivere mi fa vivere, è un’evasione, una passione che ho affinato con il tempo e di questo devo ringraziare il mio produttore, Fabrizio Barbacci, e i Negrita. Mi hanno migliorato. In una canzone è fondamentale trovare la parola chiave. Tutto il resto poi va a incastro.
Come in Maria Salvador?
Esatto, proprio a quella canzone pensavo. Spesso bastano poche parole per rendere l’idea. Il successo che abbiamo avuto con J-Ax non è venuto per caso.
Il pubblico apprezza il tuo metterti a nudo, anche sui social. Lo vivi come un sacrificio necessario, è strategia comunicativa o ti viene naturale?
Non ho mai avuto niente da nascondere, i miei difetti li ho sempre messi in piazza senza vergogna. E poi non amo offrire al pubblico un’immagine social che non corrisponde a quella reale. Io sono così come mi vedono, su Instagram e dal vivo. Senza finzioni.

Perché sei favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere?
Che io, per inciso, non riutilizzerei perché mi mandano in paranoia. Sono favorevole per allinearsi a paesi più avanti rispetto a noi. Perché in quei paesi il consumo giovanile è diminuito. Perché ad Amsterdam, per fare un esempio, fumano quasi solo i turisti. Perché i dati ci dicono che i ragazzi, dopo un picco iniziale, utilizzano per lo più la cannabis leggera. Perché le droghe pesanti uccidono ma la peggiore è l’alcol, che è legale. Ed è quella che mi stava rovinando la vita.
Per colpa tua? Della società? Del jet set?
Boh, mi ci ero rifugiato per affrontare i saliscendi della vita. Da buon aretino, non sono mai stato astemio, solo che giorno dopo giorno la mia era diventata un’intossicazione mentale e fisica. E non se ne esce mai totalmente, anche se adesso l’ho superata.
Arezzo cosa rappresenta per te?
E’ il luogo dove sono nato, dove si è formato il mio spirito identitario, umano, culturale. Da quando vivo a Milano, in una metropoli che ti avvolge, ho capito che Arezzo ce l’ho dentro. Non sono un esule, ci torno con gioia. Anche se non capisco le lamentele sul degrado. Bisogna sempre sforzarsi di cogliere gli aspetti migliori delle cose e lì ce ne sono molti.
Nel 2017 usciva il singolo La fate facile. E cantavi che il tuo cuore imbizzarrito preoccupava i dottori. E’ ancora così?
Era un momento difficile, avevo attacchi di panico. La terapia mi ha aiutato, anche se è una di quelle cose che, non so per quale motivo, si confessano sempre a fatica. Oggi va molto meglio.
E in amore come va?
E’ l’unico motivo per cui scrivo canzoni. Come va? Ho metabolizzato la fine della storia più importante della mia vita, quella che mi aveva spinto a trasferirmi a Milano. Dopo un periodo di freddezza, con lei ho recuperato un buon rapporto. Cosa strana per me, che con le mie ex ho sempre avuto strascichi burrascosi. Diciamo che ora sto bene con me stesso.
Pensi mai ad avere una famiglia tutta tua?
Vuoi sapere se penso a un figlio? No, non mi ritengo in grado di essere il genitore che vorrei. Mi darebbe una preoccupazione immensa farlo crescere nella società di oggi, mi preoccupa pure trovare la persona giusta con cui metterlo al mondo. Per il momento, la dinastia finisce con me. Poi non si sa mai…
Cos’è che ti rende felice a quasi quarant’anni?
L’assenza di turbamento. La felicità è una lunga atarassia, vivere senza contrasti è l’unica cosa che mi fa stare sereno.