Le prime volte allo stadio a tifare Meroi e Fara, le partitelle per strada con Chiodini e Giuliani, i campionati da centromediano metodista e poi la carriera in panchina, quella volta che Allegri gli soffiò il posto, il sogno di riportare l’Arezzo in B, il binomio con Sarri, la Juventus di Cr7, il titolo di campione d’Italia e l’attesa di una nuova avventura. Intervista a un uomo nato allenatore

C’è molto di non raccontato nella carriera di Loris Beoni, uomo di campo poco incline alle pubbliche relazioni. E’ un allenatore moderno, aggiornato, fautore di un calcio organizzato e veloce, dove l’equilibrio tra modulo tattico e caratteristiche dei giocatori è l’alchimia che tiene su la squadra. Però meglio una parola in meno che in più, zero concessioni alle vanità da social e profilo basso. Una linea vecchio stampo che non ha cambiato mai, nemmeno quando avrebbe potuto gonfiare il petto per i risultati raggiunti e sollevare il cappellino dalla testa, allargando il sorriso. Aretino, classe ’58, ex centromediano metodista di talento, Beoni è stato da subito giocatore e allenatore insieme, tant’è che per un certo periodo ha ricoperto entrambi i ruoli in contemporanea. Vincendo. Poi, appese le scarpe al chiodo e abbandonato il mestiere di assicuratore, è partito dal basso, dai campi dilettanti, ha viaggiato sulle montagne russe come molti colleghi ed è arrivato a vincere uno scudetto con la Juventus nell’iper professionistico mondo della serie A. Stagione 2019/20, collaboratore tecnico di Maurizio Sarri. Campione d’Italia.

Un allenatore che a 62 anni si cuce il tricolore sul petto ha ancora la voglia di sporcarsi le scarpe?
Assolutamente sì. Sento proprio la mancanza fisica del lavoro, anche se nell’ultimo periodo non mi sono potuto allontanare troppo da casa. Mi servirebbe l’occasione giusta.

Non c’è stata dopo la Juventus?
Potevo andare alla Pistoiese pochi mesi fa, quando stava cambiando la società. Poi è saltato tutto.

Ora che ha conosciuto il calcio dei top player dopo quello dei dilettanti e della Lega Pro, le piace ancora questo mondo?
A me piace il mio mestiere, il campo mi fa stare bene, è il mio ambiente naturale. Non mi piacciono gli aspetti collaterali, il contesto generale è falso, i rapporti per la maggior parte non sono sinceri. E sei giudicato solo per i risultati.

la festa scudetto con Cr7

E l’età le pesa mister?
Mi pesa come a tutti. Ma se mi chiedono a bruciapelo quanti anni ho, devo pensarci prima di rispondere. Continuo a sentirmi addosso quell’ardore giovanile che avevo quando ho cominciato.

E’ davvero così difficile gestire Cristiano Ronaldo? O sono esagerazioni dei media?
Allenare il miglior giocatore del mondo non è semplice, qualcosa devi concedere. Ma anche a quei livelli la gestione tecnica non cambia molto, è l’unica cosa che resta similare in tutte le categorie. Hai a che fare con professionisti totali che lavorano in strutture all’avanguardia. E anche lo staff può pensare al calcio 24 ore al giorno.

Tecnicamente, chi era il più forte in quello spogliatoio?
Douglas Costa. Impressionante. Un funambolo dentro un gruppo di livello elevato: CR7, Dybala, Higuain sono tra i top al mondo.

C’è stato ancora spazio, dopo tanti anni di calcio, per un po’ di sana emozione?
Altro che. La prima riunione tecnica per presentare l’avversario la feci io. Alzare gli occhi e vedere quella platea di giocatori un po’ d’effetto lo fa. Emozioni forti sono state la prima panchina allo Stadium, a San Siro, in Champions a Madrid. Ma era diverso il contorno più che la sensazione che ho provato. Anche a Carrara, a Gubbio, a Messina, ho avvertito vibrazioni che non posso dimenticare.

Però lo scudetto…
Soddisfazione immensa, ma non sono uno che si accontenta.

in panchina con Maurizio Sarri

Maurizio Sarri cos’è: un amico, un collega speciale, un esempio da seguire o cos’altro?
Senz’altro un amico. L’ho allenato alla Castelnuovese, poi il nostro è stato un legame di sentimenti più che di frequentazioni abituali. Ci siamo sempre sentiti poche volte all’anno, ma la stima è rimasta alta. Diciamo che il rapporto tra me e lui è nato da tanti scontri in panchina nei dilettanti. Poi è proseguito a San Giovanni, dove lui arrivò quando io già lavoravo nel settore giovanile. E poi c’è stata la bella annata vissuta a Napoli, io in Primavera e lui in prima squadra.

Perché l’ha voluta alla Juventus?
In realtà mi aveva cercato l’anno prima. Estate 2018, ero in Tunisia per una conferenza. Mi chiama e mi propone di seguirlo al Chelsea. Accetto, mi dice che di lì a qualche giorno mi avrebbe dato conferma, non appena firmato il contratto. Invece l’ho risentito a luglio del 2019, quando mi ha offerto l’opportunità della Juve. Al che, scherzando, gli ho risposto: “Non è che sparisci di nuovo, vero?”. Ci abbiamo riso su e dopo poco eravamo a Torino.

Il divorzio dalla Juventus è stato un fulmine a ciel sereno come si legge e racconta? O un po’ ve l’aspettavate?
Di certe cose è bene che ne parli Maurizio. Io so che vincere quello scudetto, con la stagione interrotta dal covid e ripresa con gli stadi vuoti, senza preparazione, fu un’impresa.

Quanto si sente aretino?
Moltissimo, totalmente. Qui sono nato, ci abito, non me ne sono mai andato. Ho questo sogno che mi rimbalza in testa da una vita: io che alleno l’Arezzo e saliamo in serie B, la festa, le bandiere. Forse un giorno succederà, non lo so.

Come mai l’Arezzo è sempre tormento più che estasi?
Perché è sempre mancata una cosa banale ma importante: la programmazione. Il settore giovanile non è stato mai sfruttato a dovere e invece sarebbe una risorsa fondamentale. L’organizzazione conta più del mecenate, come la scelta delle persone giuste nel ruolo giusto. Tutti portano a esempio l’Empoli. E l’Empoli vive grazie al vivaio e alle strutture.

Loris Beoni giocatore (quarto in piedi da sinistra) nel Tegoleto degli anni ’80

Loris Beoni e l’amaranto in che rapporti sono?
Stretti. Ho iniziato ad andare allo stadio quando avevo 5 anni. Mio padre era un fedelissimo, in casa e in trasferta non ne perdeva una. Ricordo la classe di Meroi, anche se a me colpiva di più la visione di gioco di Fara.

Questione di ruolo.
Anche. Sai come sono arrivato alle giovanili dell’Arezzo? Giocavo per strada con Giuliano Giuliani e Alessandro Chiodini. Un signore, non so chi fosse, ci vide e ci portò alla Gabos. Eravamo ragazzini, ci misero in panchina contro il San Leo con i cartellini falsi. Poi entrammo, Giuliani parò anche le mosche, io feci due gol. Ci tesserarono subito, i nostri nomi giravano tra gli addetti ai lavori. Insieme andammo all’Arezzo.

Periodo?
Inizio anni ’70. Avevo fatto un provino con il Toro, ero piaciuto, ma i miei non mi mandarono. Troppo lontano. Comunque, in amaranto avevo Miro Scatizzi allenatore negli Allievi. Dopo poche partite passai alla Berretti di Talusi e successivamente alla Primavera con Battiston, Pierazzi, Cipriani, Bartalesi come compagni. A fine stagione perdemmo in finale un torneo a Cavriglia, io e Giuliani combinammo un disastro, prendemmo gol e mister Talusi mi rimproverò davanti a tutti. Me ne ebbi così a male che mollai tutto e smisi con il calcio. Mi ero fidanzato con Giovanna, che poi sarebbe diventata mia moglie, pensavo di poter stare senza pallone.

Invece…
Una tortura. L’Arezzo nel frattempo era retrocesso in C, era il 1975. Non mi cercò più nessuno e ricominciai dalla terza categoria. Poi è venuto tutto il resto.

Loris Beoni allenatore l’avrebbe fatto giocare il Loris Beoni calciatore?
Sì, ero uno di personalità. Potevo giocare sia nel 433 che nel 442, anche se nelle ultime stagioni arretrai a fare il centrale difensivo. Avevo già cominciato ad allenare: a 26 anni mi affidarono la Juniores del Tegoleto. E non avevo il patentino.

Quand’è che ha capito che allenare era il suo pane?
A Levane, in prima categoria. Presidente Nedo Cuccoli. Dopo 10 giornate e 4 punti in classifica, esonerano Fausto Landini e mi danno la squadra. Io ancora giocavo. Facciamo 17 risultati utili di fila, arriviamo terzi. L’anno dopo mi confermano e vinciamo il campionato.

Ma si può giocare e allenare allo stesso tempo, facendo bene entrambe le cose?
A me riusciva. In campo leggevo subito lo sviluppo del gioco, cosa che dalla panchina mi è rimasta più difficile. Devo concentrarmi al massimo per riuscirci.

Le scarpe al chiodo le ha appese per una questione d’età, di stimoli o per dedicarsi solo a fare l’allenatore?
Perché non arrivavo più. Ero a Monte San Savino. Un ragazzino mi va via secco e io lo stendo da dietro. Espulso. Il primo cartellino rosso della carriera. Capii che dovevo dire basta.

Ci sono stati momenti in cui il percorso da allenatore avrebbe potuto portarla da un’altra parte? Per esempio quando il presidente Casprini, a San Giovanni Valdarno, le aveva promesso la panchina della prima squadra in C1. Poi Casprini morì tragicamente e cambiò tutto. La panchina andò a Piero Braglia.
E’ vero. Stagione 2005/06. Ma non ho rimpianti, in quell’estate mi richiamò la Sansovino. Disputammo un campionato incredibile in C2: per il gioco espresso, i valori tecnici e morali avremmo meritato la promozione. Avevo in rosa Benassi, Sottili, Zacchei, Tarpani, Marmorini, Viviani, Pacciardi, Camillucci, un gruppo splendido.

Aneddoti?
Una domenica giochiamo a Gualdo, all’intervallo siamo sotto 1-0, entro negli spogliatoi e tratto male la squadra: “siete uomini di merda”. Mi pento appena pronuncio quella frase, ma ormai mi è uscita. Alla fine vinciamo 2-1 e nel pullman, mentre torniamo a casa, uno dei senatori mi si avvicina e mi fa: “mister, qui siamo tutti bravi ragazzi, ma se lei dice una roba del genere in uno spogliatoio diverso, la fanno fuori in cinque minuti”.

stagione 2017/18, allenatore della Primavera del Napoli

Ha più alzato la voce negli anni seguenti?
Sparate simili sì, ne ho fatte, ma senza parole offensive in quel modo. Ero al primo anno di C, dovevo imparare.

Quello era l’anno della finale play-off persa contro il Sassuolo di Remondina.
2-2 in casa nostra, 1-0 per loro in Emilia, gol di Pensalfini. E la sensazione che l’epilogo fosse scritto. Squinzi, patron del Sassuolo, stava provando da anni a salire di categoria senza riuscirci. Mapei era sponsor della Figc per i Mondiali in Germania. Doveva andare in quel modo. Il Sassuolo poi mi contattò per prendere il posto di Remondina.

Ma non se ne fece nulla.
Colloquio all’hotel Minerva con i dirigenti Rossi e Bonato. Loro avevano chiesto informazioni su di me a Sottili, che avevo allenato, e a Poggesi, mio ex direttore a Figline. Sapevo che a Sassuolo volevano solo allenatori che utilizzano il 433, quindi andai preparato. Detti la disponibilità a giocare con quel modulo e aggiunsi che comunque quel che conta è l’equilibrio della squadra. Quella frase mi tradì. Presero Allegri.

Chissà come sarebbe stato allenare a Sassuolo…
Chi si è seduto su quella panchina, poi ha quasi sempre fatto carriera. Comunque colloqui al Minerva non ne farò mai più.

Perché?
Nel 2013, mi pare un giovedì, ne ebbi un altro con l’Arezzo, che giocava in serie D. Il direttore era Bonafede in quel periodo: trovammo l’accordo su tutto con lui e con il presidente Ferretti, fissammo per il martedì successivo la conferenza di presentazione. Invece, di punto in bianco, andarono su un altro allenatore. Ci rimasi male.

la coppa dello scudetto con i ricordi di tutta la carriera

Un crocevia importante c’è stato anche a San Benedetto del Tronto in Lega Pro, nel 2015. 8 partite, 5 vittorie, un pari e 2 sconfitte, primo posto in classifica. Il presidente Fedeli la esonera così: “Se il pullman va fuori strada è colpa di chi tiene il volante”.
Parlo in generale. Io sono contento di quella che è stata la mia vita sul piano sportivo. Sono partito dal basso e oggi a casa ho il trofeo dello scudetto. Ho allenato in piazze importanti e gestito più di mille calciatori: con quasi tutti ho avuto ottimi rapporti, 4 o 5 li ho attaccati al muro. Ma ero giovane, ora non lo farei più. Ho cominciato quando un allenatore doveva essere autoritario, mentre adesso deve comportarsi in modo autorevole.

C’è un momento, un episodio, un flash di tutti questi anni che le fa piacere ricordare più degli altri?
Potrei rispondere che ascoltare la musica della Champions dal campo è stato inebriante. Ma la realtà è che sono legato a ricordi più semplici. A Messina, per esempio, vivemmo una stagione disastrata per le difficoltà societarie. Una sera dovetti pagare l’hotel a tutta la squadra, non sapevamo dove alloggiare. Però i tifosi mi chiamavano “professore” e lo facevano con un affetto che mi è rimasto dentro.

Quindi non è vero che Loris Beoni è un musone.
Sai quante volte l’ho sentita questa storia? Il mio problema è che sono fatto così, non amo apparire, e questo mi ha danneggiato. Anche se l’accusa di avere il muso lungo me l’hanno sempre rivolta persone che non mi conoscono.

Sono gli oneri di questo mestiere, purtroppo.
Che poi me ne importa fino a un certo punto. A me interessa essere apprezzato per il mio lavoro, le mie idee, l’empatia che riesco a creare con chi mi sta vicino.

La rivediamo in panchina mister?
Spero proprio di sì. L’ho detto, ho una voglia di allenare che mangerei il campo.