Un cognome ingombrante e una vita finora lontano dai riflettori. Cristina Squarcialupi, figlia di Sergio, ha in mano le redini della Lasi ed è vice presidente di Unoaerre. Filosofia calvinista del lavoro, ha scelto Firenze per vivere. “Lì sono una delle tante”. E per una volta si apre: la responsabilità delle aziende, il marito, la famiglia, la passione per l’arte, il nuoto e lo yoga. Il primo lavoro? “La restauratrice”

“Ho deciso di abitare a Firenze. Lì ho frequentato l’Università, ho incontrato mio marito e mi sono fermata. Certo che sono innamorata di Arezzo, è la mia città. Ma qui (ad Arezzo, nda) Squarcialupi è un cognome ingombrante. A Firenze invece sono invisibile”. Elegante senza fronzoli, educata senza salamelecchi. Cristina Squarcialupi ha 53 anni, la figura asciutta da sportiva e spalle forti per sostenere, col fratello Andrea, l’eredità del babbo Sergio: un gruppo con fatturato annuo a nove zeri. A lei spettano soprattutto le responsabilità in Lasi, di cui è presidente da anni, e Unoaerre, di cui è vice.

L’accoglienza avviene proprio a San Zeno: nel tempio dell’oro di Arezzo, quindi d’Italia. Nella straordinaria impresa creata da Leopoldo Gori e Carlo Zucchi che nel 1934 ottenne il marchio di fabbrica “1AR”.

Mano tesa, quattro chiacchiere, un passaggio tra gli orafi al lavoro. L’ufficio vicepresidenziale è in un soppalco della produzione. Cristina Squarcialupi è pratica e affabile. Il ghiaccio si rompe facilmente.

L’infanzia ad Arezzo, la maturità classica, poi Firenze all’università. Sceglie la facoltà di chimica. Perché? “Così voleva babbo”. Ma alla fine arriva un 110 e lode. Secchiona? “Macché, tutt’altro che secchiona, non lo sono mai stata. Però mi ha sempre mosso un gran senso del dovere. E soprattutto non mi piace fare le cose tanto per fare. Se mi butto in qualcosa, mi impegno. Cerco il meglio. Ma senza velleità da prima della classe: mi adopero per non perdere mai di vista l’obiettivo”. Chimica indigesta ma non troppo. “Me la sono fatta piacere, diciamo. E poi ha pesato il fatto che, pur avendo frequentato il liceo classico, le materie scientifiche non hanno mai rappresentato un grosso ostacolo per me. Anche alle superiori andavo bene a matematica”. E Sergio sarà stato contento. “Riconosco a mio padre una serie sconfinata di qualità, di certo con me e Andrea è stato molto duro. Esigente. Mai un segnale di tregua, di relax. Abbiamo dovuto sempre lottare per avere la sua approvazione. Ho avuto un rapporto molto conflittuale in gioventù con il babbo, poi il tempo ci ha fatto riavvicinare”.

C’è un ricordo distillato dal pentolone della memoria che si impone nitido: mischia Arezzo e famiglia, svago e impegno, attitudine e passione. “Ero piccola, babbo portava tutti alla messa alla basilica di San Francesco. Ho ancora addosso la sensazione piacevole di varcare, tutti insieme, la soglia d’ingresso. La maestosità della struttura, la bellezza degli affreschi dietro l’altare che i miei mi indicavano”. L’incontro con Piero della Francesca. Uno dei primi incroci con la grande arte. Ne seguiranno altri. Perché, e forse pochi lo sanno, c’è stata una vita in cui Cristina Squarcialupi si dedicava alla conservazione dei beni culturali.

“Era il ramo della chimica in cui avevo deciso di specializzarmi – continua -, dopo la laurea ho avuto borse di studio e dottorati di ricerca. E ho lavorato a lungo all’Opificio delle Pietre Dure”. Ovvero, uno dei più importanti istituti per il restauro delle opere d’arte a livello internazionale e che ha sede a Firenze. Le cui origini affondando addirittura alla fine del ‘500, quando – sotto Ferdinando I de’ Medici – nacque l’omonima attività manifatturiera specializzata nella lavorazione di intarsi e pietre semi-preziose.

“Ho preso parte al recupero di famose opere. Su tutte, ho avuto la possibilità di lavorare al restauro della Porta nord e della Porta sud del battistero di Firenze”. Il primo è stato realizzato da Lorenzo Ghiberti, capolavoro che ha preceduto la realizzazione della celeberrima “Porta del Paradiso”, il secondo, antecedente, fu disegnato da Andrea Pisano. Entrambe le porte furono danneggiate dall’alluvione del 1966 e sono state successivamente sottoposte a un lungo, complesso e delicato recupero. A cui anche Cristina, grazie alle sue abilità di chimica, ha contribuito.

“Amavo quello che facevo – racconta -, l’arte, il restauro. Ma ero una privilegiata. Facevo straordinarie esperienze, sapendo di avere una sicurezza economica dietro. E sapevo di poter interrompere da un momento all’altro quella vita precaria, fatta di grande impegno, di enorme passione e pochi soldi. La ricerca, e la ricerca applicata alla conservazione del patrimonio culturale in particolare, in Italia purtroppo non pagano. Per quanto il lavoro sia scrupoloso, attento, frutto di grandi studi. Ho lasciato tutto per dedicarmi alla Lasi, l’azienda di famiglia specializzata in analisi chimiche. Mio marito continua a lavorare all’Università di Firenze, è un docente. Conosco da vicino i grandi pregi e gli altrettanto grandi difetti del sistema accademico italiano”.

Nonostante il ritorno ad Arezzo per lavoro, il centro di gravità permanente di Cristina resta Firenze. “Lì ho casa e famiglia. Faccio avanti e indietro cercando di incastrare ogni tassello al posto giusto. Non è facile. Fuori dal lavoro, cerco di essere una mamma attenta”. In mezzo la responsabilità della Lasi, il nuovo impegno alla Unoaerre, le trasferte. “E se posso – sorride – cerco ancora di mettermi al lavoro sul campo, oltre che svolgere attività di coordinamento”.

Ma c’è un po’ di spazio per se stessa? “Sì un po’. Sono iperattiva e cerco di sfruttare le pause pranzo per fare sport. Sono appassionata di nuoto, faccio qualche vasca quando posso. Oppure mi concedo una lezione di yoga. Anche se star ferma a meditare non è il mio pezzo forte”.

In Chimet fa parte del consiglio di amministrazione. Come ha vissuto gli anni del processo? “Male, ovviamente. Ma dopo l’assoluzione il pregiudizio nei confronti di questa azienda resta. A mio padre non si perdona il successo. Io mi arrabbio, perché gli attacchi che arrivano sono sempre pretestuosi: sul tema del recupero dei rifiuti c’è un’ignoranza pazzesca. Ci si riempie la bocca di espressioni come “economia circolare”, poi però la Chimet, che permette la rigenerazione di materiali su larga scala, diventa un bersaglio. E pensare che tra le tante industrie del territorio, per storia, per dimensioni, per clientela internazionale, la Chimet è molto più controllata della media: rispetta standard elevatissimi, in ambito etico e ambientale. E non perché li impongono gli organi di controllo, ma perché prima di loro ce li chiedono i clienti”.

E’ anche per questo che il rapporto con Arezzo è sfaccettato? “Porto un cognome che non è indifferente alla maggioranza degli aretini. Mio padre però ha salvato la Unoaerre, l’ha presa a un passo dalla chiusura e l’ha fatta rifiorire in pochi anni. E all’Unoaerre tutti gli aretini vogliono bene. Arezzo la vivo da pendolare ma la amo: ho le amicizie di una vita, i miei affetti. I luoghi del cuore, come San Francesco. Ma mi piace anche confondermi tra la folla, essere invisibile. Come mi accade a Firenze”.