Andrea Laurenzi è un collega, ma non è questa la storia che vogliamo raccontare qui. Dietro il suo volto severo e dietro la sua parlantina, a tratti asciutta, altre volte divertita, si nasconde quella di un padre che si batte per i diritti di Benedetta, la figlia autistica. Un percorso duro, difficile, che l’ha portato a fondare l’Associazione Arezzo Autismo per cercare di fare rete e di aiutare le famiglie che come la sua affrontano ogni giorno una jungla di leggi, burocrazia e stigma che non si può nemmeno immaginare. Perché di fronte a certe realtà bisogna essere seri e severi, soprattutto con noi stessi, ed evitare retorica e compiacimento.

Arezzo Autismo

Quello che abbiamo cercato di capire con Andrea è se esiste un reale sistema di welfare capace di aiutare chi nella vita è chiamato a percorrere questa strada al fianco di una figlia, di un figlio, insieme con una moglie, una compagna, un fratello o una sorella. Potrà apparire ridondante, ma quando si parla di autismo non si deve pensare al singolo ma sempre al gruppo familiare e questo è un tema che sfugge troppo spesso al welfare italiano o quello che ne rimane: «L’Italia ha tantissime leggi in materia, ma spesso disattese e non applicate. Ci sono leggi fondamentali come la 104 che ha aiutato e protegge molte persone, ma non dobbiamo dimenticarci che il welfare italiano è affidato alle Regioni, quindi lo Stato centrale fa le leggi e queste poi vengono applicate in maniera disorganica dalle Regioni, che spesso non ci mettono i soldi, che è, poi, il modo più semplice per svuotare una norma. Quindi tutto si trasforma in un welfare a macchia di leopardo, con Regioni più virtuose e altre meno. Se riportiamo tutto questo alla situazione di una persona autistica che ha bisogno di un progetto individuale, su misura per lei, il quale prevede la presa in carico del nucleo familiare, ecco che abbiamo il combinato disposto di ciò che non funziona».

Arezzo Autismo

Andrea è diretto come un treno e le sue parole tagliano come una katana, così affilate che lì per lì non te ne accorgi ma poi inizi a sanguinare. D’altra parte, dopo tanti anni di battaglie viene sempre il momento di mettere i puntini sulle i, per dire chiaro e tondo cosa non va, chi fa cosa e chi non lo fa: «Quando nasce un figlio autistico, la cui diagnosi avviene non prima dei due anni e mezzo, parte un percorso lungo e tortuoso che spesso dura anni. È un sistema sbagliato e superficiale che non approfondisce, che lascia i genitori in balia degli eventi. I tempi della burocrazia e della sanità sono lunghissimi, non tutte le famiglie hanno quel tempo a disposizione e spesso le diagnosi non vengono riconosciute dal sistema, perdendo altro tempo. Questo è quello che vivono le famiglie, mentre nessuno ci accompagna in questa jungla fatta di leggi, normative e terapie. L’affidamento al sistema sanitario nazionale è come la ruota della fortuna, perché se abiti in Toscana o Emilia Romagna è un conto, se invece vivi in Basilicata o Calabria è un altro. In queste regioni, bellissime e magiche, non esistono servizi di base adeguati figuriamoci quelli specializzati. La disabilità dello spettro autistico e intellettiva è diversa da tutte le altre, necessita di terapie comportamentali, ambienti adeguati, formazione, educazione, insomma un vero percorso di vita alternativo, ma spesso le famiglie non trovano niente di tutto questo. La situazione nella vicina Umbria, ad esempio, è molto diversa rispetto alla Toscana e questo provoca una migrazione di pazienti e famiglie, molte delle quali si rivolgono alla nostra Associazione».

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Il sistema sanitario affidato alle Regioni crea disparità enormi, che nessuno in questi anni ha voluto, o potuto, modificare. Un sistema nel quale le Regioni più ricche lo diventano sempre di più perché chi può emigra e cerca servizi migliori. Ad esempio c’è chi dalla Toscana si trasferisce in Veneto dove l’assistenza è migliore, sradicandosi dalle proprie radici per cercare una vita diversa insieme con il figlio o la figlia autistici: «In Australia, Canada e Stati Uniti, dove la ricerca è molto avanzata, si applicano terapie innovative, in Italia invece siamo rimasti ancora alle basi: la logopedia e la psicomotricità. Per un bambino che non parla, che ha problemi a rapportarsi con il mondo la terapia lineare non può funzionare, a mio giudizio, la disabilità intellettiva non si cura così. La presa in carico deve essere verticale non orizzontale. Le terapie che, ad esempio, segue mia figlia non vanno bene per altri e viceversa. Ognuno ha esigenze diverse, sogni differenti, ma davanti a noi si para un sistema sanitario che non ce la fa per come è stato costruito, impermeabile al cambiamento, scheletro di un welfare cui non puoi chiedere di più perché non ci sono le professionalità. L’unica cosa che il sistema sanitario ha sono i soldi, ma se una Regione non approva le leggi e non le finanzia diventa tutto dannatamente difficile. Tutto questo mentre gli autistici andrebbero capiti e non curati. Dovremmo lavorare sulle loro potenzialità e sulla forza del nucleo familiare, costruendogli attorno un percorso di vita che non li abbandoni. Io sono da dodici anni dentro questo sistema e faccio fatica a orientarmi, figuriamoci le famiglie lasciate sole a stesse. A volte ottenere un rimborso è una via crucis. Porto ad esempio l’attività sportiva, fondamentale per tutti noi. I nostri figli dovrebbero essere agevolati a svolgerla mentre alla fine paghiamo di più e spesso non abbiamo le giuste opportunità, perché il sistema richiede sempre nuove certificazioni e riscontri che non sempre è possibile avere. In questo caso ci affidiamo, spesso, al buon cuore di alcuni dirigenti di società sportive per sopperire a questa mancanza».

E poi c’è il tema ancora più impegnativo della scuola, e della formazione, e Andrea Laurenzi apre il vaso di Pandora come solo un padre sa fare, con un’oggettività sconosciuta a molti di noi: «Io non giudico nessuno, sia chiaro, io dico quello che vedo e che ho vissuto, e vivo quotidianamente, sulla mia pelle, come succede a tanti altri genitori nella mia stessa condizione. I nostri figli per il resto della società sono dei giocattoli rotti, ingranaggi che rallentano il sistema e castrano le potenzialità dei ‘cosiddetti’ normodotati. Spesso per le altre famiglie la presenza dei nostri figli è semplicemente un problema. Gli insegnanti di sostegno vengono emarginati nel loro agire: il solo obiettivo è seguire pedissequamente il programma perché gli altri (i normodotati) devono diventare medici o ingegneri. Una esclusione nei fatti, mascherata da inclusione. Io mi guardo intorno e vedo che nel mondo anglosassone, ad esempio, esistono modelli differenti, come le scuole speciali per gli autistici. Sinceramente vista la nostra situazione io mi faccio delle domande al riguardo. Il nostro sistema è più bello? Forse. Il loro meno inclusivo? Probabile. Ma alla fine in questi Paesi vengono investite tante risorse sui ragazzi autistici, con l’obiettivo di fargli raggiungere il loro massimo potenziale. In Italia, invece, questo sistema non funziona e, soprattutto, non ci mettiamo le risorse necessarie. Mentre a livello statale si continua a legiferare, nei territori i nostri ragazzi vengono di fatto esclusi dalla vita sociale indirizzandoli verso istituti che alla fine risultano dei manicomi mascherati, contro cui noi ci battiamo e ci batteremo sempre. Un istituto è l’ultima cosa che vogliamo per i nostri figli, ma il sistema è impreparato, i tempi di risposta per le famiglie sono insostenibili, i rimborsi che ci spettano per le terapie non arrivano o arrivano con mesi di ritardo, e come sempre resiste solo chi può economicamente. Abbiamo contro un sistema di welfare elefantiaco che dà risposte tardive e/o inadeguate. Esistono decine di documenti approvati in Regione o in Parlamento, anche con voto unanime di tutte le forze politiche, per cambiare la situazione, ma, a oggi, non si è arrivati a niente».

Arezzo Autismo

Da qui la nascita dell’Associazione Arezzo Autismo per alzare l’asticella, per creare un mezzo di pressione verso le istituzioni, per chiedere rispetto per i diritti fondamentali dei propri figli, per le promesse mancate, per percorsi scolastici accidentati e, nonostante le indicazioni dell’Istituto Superiore di Sanità, per le terapie disattese: «Siamo partiti con attività semplici, come i campi estivi o piccoli momenti di formazione, e a grande fatica abbiamo iniziato a frequentare i tavoli istituzionali e decisionali guadagnandoci il rispetto per il nostro ruolo, ma alla fine dopo tante leggi e tante riunioni siamo ancora fermi alla ‘guerriglia’. È deprimente dirlo, ma non posso affermare di avere raggiunto un traguardo significativo da quando abbiamo fondato l’Associazione, oltre il rispetto e l’autorevolezza che ci siamo guadagnati. Se penso a quante volte ho varcato la soglia dei palazzi del potere, a quante riunioni ho partecipato e a dove siamo oggi, un po’ mi demoralizzo. Ancora adesso, nel 2022, non veniamo interpellati o coinvolti sulle decisioni che ci riguardano e soprattutto riguardano i nostri figli. Nel 2014 era pronto un progetto per un Centro Autismo provinciale, c’erano i soldi, il progetto, sembrava tutto pronto… a distanza di otto anni siamo ancora ai nastri di partenza e chissà. Tutti, dai tecnici della sanità ai politici, in questi anni, ci hanno illuso. Forse non è nemmeno colpa loro, ma di un sistema che non regge. Io credo in tutta sincerità che il sistema sociale funzioni benissimo, siamo noi che siamo estranei a esso. Dal punto di vista statale noi siamo un’anomalia e veniamo trattati come tali. Il problema, però, è che questa anomalia coinvolge circa 700mila persone autistiche solo in Italia. Se considerassimo tutte le persone fragili o disabili nel nostro Paese, da sole rappresenterebbero la seconda regione italiana per popolazione dopo la Lombardia. Questa anomalia prima o poi non sarà più possibile chiuderla in un recinto o escluderla dalla vita. Nella sola provincia di Arezzo nascono circa 40 bambini con sindrome dello spettro autistico ogni anno. Partendo da queste cifre, stiamo parlando di 3-4mila persone tra adulti e minori che oggi vivono qua e che possiamo afferire alla disabilità autistica o intellettiva. Questi numeri ci raccontano un fatto molto semplice: che non possiamo dirci impreparati nelle diagnosi, nelle terapie, nelle professionalità, nel prendere in carico le famiglie. Noi genitori siamo arrabbiati e non potrebbe essere diversamente, perché si continua a vivere alla giornata, ma non ci sono più scuse per ignorare questi fatti. Prima della pandemia l’Associazione è stata un grande rifugio per le famiglie che hanno trovato finalmente qualcuno che non le abbandonasse. Spesso abbiamo incrociato genitori con figli disabili adulti letteralmente chiusi in casa da anni, e questo è profondamente ingiusto».

In queste storie, in questi percorsi c’è sempre una parte privata che difficilmente resta tale, ci sono domande personali che diventano pubbliche, ci sono quesiti ai quali si cerca di dare delle risposte e non sempre queste risposte piace ascoltarle: «Benedetta, mia figlia, oggi ha quindici anni e posso dire che sicuramente lei mi ha migliorato come persona. La memoria spesso, fortunatamente, rimuove le brutture della vita, dimentichiamo in fretta le difficoltà che abbiamo attraversato e guardiamo sempre al futuro. Se, però, dovessi riassumere con un sentimento questi anni di Autismo Arezzo direi che è consapevolezza, mista a paura. Consapevolezza di non essere solo ma di far parte di una grande famiglia con amici fidati e solidali; paura per il futuro che investe tutti i genitori come noi, pensando a quando i figli saranno più grandi, alla loro autosufficienza. È come guidare una canoa in mezzo alle rapide di un fiume, sei concentrato a non far ribaltare la canoa, l’imperativo è resistere, non affogare, ma non sai cosa ti aspetta dopo un’altra rapida e sei consapevole che quella canoa non sarà mai capace di andare da sola senza ribaltarsi. Conosco decine di famiglie con ragazzi bravissimi, che sanno fare cose straordinarie, ma nessuno di loro è veramente autonomo. In quei momenti ti assale la paura di non poter essere sempre presente, di non poterti permettere imprevisti o malattie. Non voglio essere cinico ma la società per i nostri figli è come un muro di gomma; per citare un grande film di Marco Risi. Se smetto di occuparmi io di Benedetta nessun altro lo farà al posto mio. Per noi non esiste un vero sistema di welfare pubblico, per gli autistici l’unico sistema è la famiglia: i genitori, i nonni, gli zii, i fratelli… ma per quanto tempo. Daniele, mio figlio primogenito, ha ventuno anni, sta costruendo la sua vita, non posso chiedergli di occuparsi di Benedetta. Ed eccoci arrivati al tema del dopo di noi. Una battaglia faticosa che ha raggiunto qualche minimo risultato ma nulla più. Per me pensarci è una sfida mentale enorme. Immaginare cosa ne sarà di Benedetta dopo mi destabilizza. Questa è la vera nuvola nera sopra la testa di tante famiglie. Poi, però, mi guardo intorno e vedo realtà molto più complicate della mia, famiglie con figli non verbali che, ad esempio, non ti comunicano neppure se hanno freddo o se stanno male. Mia figlia, fortunatamente, è in grado di fare tante cose in autonomia e posso permettermi addirittura di lasciarla in casa da sola, anche se per poco. Tutto ciò ci dice però una grande verità: che servono livelli di assistenza differenti. Che ogni persona autistica è differente, che serve un impegno straordinario e che il ‘progetto individuale’, più volte citato nelle leggi, deve diventare prassi. Il problema è che noi chiediamo un cambio di prospettiva da parte della società, un sistema che sia inclusivo, accogliente, trasparente e senza stigmi. Quello che vorremmo, e che tutti dovremmo fare, è un vero salto di qualità culturale e umano. Il mondo è pieno di gente disponibile, sensibile e volenterosa, ma tutto ciò deve essere sostenuto da un welfare che accompagni il sistema all’autogestione. Cerco di spiegarmi meglio. In pizzeria, come al cinema o in altri posti del divertimento ci dovrebbero essere persone formate e preparate che sanno quali sono le fragilità di un ragazzo o una ragazza autistici. Lo stesso dovrebbe accadere in un negozio di abbigliamento o in autobus. Basterebbe poco ma il sistema non si piega da solo, manca la volontà politica e culturale. Il mio sogno sarebbe quello di ribaltare completamente l’approccio della nostra civiltà: partire dall’ultimo e arrivare al primo, non viceversa. Poiché se organizzi la tua società e la tua comunità partendo da chi ce la fa, da chi non ha problemi, il sistema non sarà mai veramente inclusivo, sarà ipocrita. Nel tempo ci siamo resi conto che le nostre associazioni, nonostante la disabilità intellettiva sia di gran lunga quella più diffusa al mondo, sono dei nani politici che hanno difficoltà a farsi ascoltare e a ottenere ciò che è giusto».

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I soldi da soli non bastano, servono risorse diverse, servono leggi applicate, serve attenzione, quella per gli ultimi, quella che a oggi sappiamo dare solo con un like o un cuoricino ma che nel concreto, appena usciamo dal nostro portone, facciamo fatica a mettere in pratica, perché ognuno di noi, alla fine, è un ingranaggio del sistema e battersi per i diritti altrui pare essere passato di moda, fuori dai social: «Le terapie devono essere una vera cassetta degli attrezzi per ogni famiglia. La apri e prendi quello di cui hai bisogno. Prendiamo ad esempio la terapia comportamentale ABA (Applied Behavioral Analysis, ndr), nata negli Stati Uniti negli anni Quaranta. È un approccio terapeutico ampiamente riconosciuto ed efficace, sembrava impossibile farla inserire nel programma statale, nonostante sia una delle terapie riconosciute dall’Istituto Superiore di Sanità. Ho dovuto lottare con la burocrazia per fare modificare la legge e far sì che, anche ad Arezzo, le famiglie potessero avere riconosciuto questo diritto. Alla fine ce l’ho fatta, ma questa è l’ennesima dimostrazione che il nostro sistema è fatto anche da norme che ti impediscono di avere ciò che ti spetta, un sistema che limita i diritti. Lo Stato destina alla salute mentale l’1,5 per cento del bilancio sanitario, mentre le indicazioni europee e internazionali sono molto diverse e parlano di un 3,6%. Alle volte ci fanno credere che stiamo chiedendo l’impossibile e invece ci stiamo semplicemente battendo per i diritti inalienabili dei nostri figli».

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L’Associazione Arezzo Autismo si trova ad Arezzo in via Ticino 6 e la sua mail è autismo.arezzo@gmail.com per chi ha bisogno di supporto o per chi volesse, a sua volta, supportarla, non solo economicamente, nelle battaglie del futuro. Il diritto è il recinto delle nostre libertà, nuovi diritti bussano alla porta per allargare quel recinto. Ci sono realtà che non possono più aspettare, non hanno più tempo. Ci siamo noi che dobbiamo facilitare questo cambiamento culturale. Ognuno per il suo.