La montagna degli aretini tra storia, natura, gioielli d’arte e desideri di valorizzazione

Geolocalizzazione

Pochi luoghi sanno toccare le corde più sensibili degli aretini e ne risvegliano i dolci ricordi sopiti come riesce a fare l’Alpe di Poti, il complesso montuoso che sovrasta la città a est, al centro di quella lunga catena che partendo dal passo dei Mandrioli, valico di crinale dell’Appennino tosco-romagnolo, arriva quasi senza soluzione di continuità al monte Ginezzo, nel territorio cortonese, ai confini con l’Umbria.

La strada più semplice per raggiungere la sua cima, a 974 metri di altezza, è la panoramica aperta negli anni Cinquanta del secolo scorso, che inizia poco dopo la deviazione sul tratto della Sr73 Senese Aretina in direzione della Valcerfone. La via nata durante le operazioni di rimboschimento del monte, si raggiunge anche dai quartieri cittadini orientali, salendo verso il valico dello Scopetone. Altre strade utilizzate per arrivare a Poti sono quella che parte da San Polo, aperta negli anni Quaranta, che in un tratto è stata dedicata nel 2019 al campione di ciclismo Marco Pantani, e quelle più somiglianti a tratturi, che passano per Pomaio e Peneto ripercorrendo antichi tragitti.

Quando longobardi e bizantini se le davano di santa ragione

Poti si trova nello spartiacque tra il Tevere e l’Arno, ma oltre a essere un divisorio naturale tra i due bacini idrografici, tra VI e VII secolo fu zona di confine e scenario delle lotte tra longobardi e bizantini.

I primi calarono in Italia intorno al 568, attraversando l’Isonzo guidati da re Alboino. A quei tempi l’Impero romano d’Oriente controllava la penisola e imperatore era Giustino II, mentre Longino era stato scelto come prefetto d’Italia in sostituzione di Narsete, generale che aveva portato a termine la riconquista sotto Giustiniano I a danno dei Goti.

I longobardi occuparono in pochi anni una larga fetta del territorio italiano. Costretti a un brusco arretramento, nella zona di Arezzo i bizantini provarono a fermare l’onda d’urto creando una linea difensiva che passava anche da Poti e dalla catena a est e sud del capoluogo. Secondo gli studiosi la città fu conquistata tra il 575 e gli inizi del secolo seguente, rimanendo in mano longobarda fino all’arrivo dei franchi di Carlo Magno nel 774.

La chiesa di San Severo, piccolo capolavoro di semplicità

È in quella fase turbolenta dell’alto medioevo che forse nacque la prima chiesa di San Severo, il gioiellino che si ammira percorrendo la strada panoramica di Poti, dedicato al dodicesimo vescovo di Ravenna, vissuto tra la seconda metà del III secolo e la prima metà di quello successivo.

La città romagnola era infatti la capitale dell’Esarcato, ovvero quella sorta di circoscrizione amministrativa dell’impero orientale comprendente, tra VI e VIII secolo, la maggior parte dei territori bizantini in Italia.

In un documento del 17 luglio 1051 la chiesa di San Severo figurava sotto il patronato della potente abbazia benedettina di Sant’Antimo, nei pressi di Montalcino. In quell’anno, infatti, l’imperatore Enrico III ne concesse il patronato all’abate Teuzzone.

Nel XII secolo l’edificio sacro fu ricostruito nelle forme che possiamo ancora ammirare.

La facciata, in particolare, è un capolavoro di semplicità con il portale architravato e la monofora a doppio strombo, quindi con la svasatura tipica dell’architettura romanica. Le somiglianze nel taglio e nella colorazione rossastra della pietra con la facciata della chiesa di San Lorenzo a Pomaio, alla quale venne unita nel XVII secolo, fanno pensare che il materiale provenga dalla stessa cava della zona. Sempre nella facciata si possono osservare delle iscrizioni di epoche diverse. Una sopra la monofora indica ad esempio il restauro del 1923.

Il piccolo campanile a vela centrale accoglie una campana contemporanea, in sostituzione di quella datata 1301 tolta per motivi di salvaguardia.

L’abside semicircolare, tipica di tante chiesette romaniche aretine sopravvissute, mostra segni di crollo e successiva ricostruzione, forse la stessa che coinvolse la parete destra, sul lato del parcheggio, dove è presente anche una fontana donata dal Corpo Forestale dello Stato.

Internamente la chiesa è a navata unica, in gran parte intonacata. L’altare è dominato da una grande croce lignea che sostiene una “Crocifissione” di autore ignoto, giunta negli ultimi anni da Roma grazie alla donazione della famiglia Palazzini.

La strage di San Severo, una pagina nera da non dimenticare

Di fronte alla facciata dell’edificio di culto, un monumento ricorda uno degli episodi più feroci legati alle stragi naziste nel territorio aretino, per il quale San Severo è tristemente conosciuta.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e l’occupazione dell’Italia, Poti divenne luogo di conflitti tra invasori e partigiani. La mattina del 14 luglio 1944, due giorni prima della liberazione di Arezzo, un gruppo di 15 tedeschi salì da Peneto ed eseguì un rastrellamento ai danni di carbonari, contadini e boscaioli.

A San Severo viveva una dozzina di famiglie in quel periodo, ma il numero era stato impinguato dagli sfollati della città. I nazisti fermarono venti persone, accusandole di far parte delle bande partigiane della XXIII Brigata Pio Borri o di proteggere la loro clandestinità. Ne rilasciarono tre dopo aver verificato i documenti e accompagnarono le altre in un vicino boschetto, dove le finirono a colpi di mitraglia. I 17 trucidati avevano un’età compresa tra 17 e 67 anni.

Il monumento in pietra e marmo, voluto da un comitato formato dalla sezione Combattenti e Reduci di Staggiano e dalla parrocchia di Pomaio e San Severo, fu inaugurato il 26 ottobre 1952. La parte centrale del manufatto, trapezoidale, presenta una lapide con un bassorilievo centrale dove sono scolpiti un elmo circondato da un ramoscello di olivo, simbolo di pace, e da uno di acanto, simbolo di resurrezione. Una croce cristiana è posta sulla sommità, mentre sotto si trova l’epigrafe con la committenza e le date dell’eccidio e dell’opera. Sui lati sono situate le lastre con le fotografie in ceramica racchiuse in ovali di bronzo dei caduti.

L’eccidio è ricordato in “Notte di San Severo”, canzone del gruppo Casa del Vento contenuta nell’album “900” del 2001. Tra le fila della band, nota per l’impegno sociale e le collaborazioni con la sacerdotessa del rock Patti Smith, figurano i cugini Luca e Sauro Lanzi, che nel massacro persero il nonno paterno Silvestro.

Passeggiando nel monte, tra chiesette rurali e monumenti perduti

Chi va alla scoperta dell’Alpe di Poti, soprattutto nel versante sud occidentale che guarda la città, oltre a San Severo troverà anche altre suggestive località panoramiche come Peneto con la chiesa di Santa Maria, Pomaio con la chiesa di San Lorenzo e San Marino, dove rimane in piedi solo l’abside dell’omonimo luogo di culto. Anche in questi casi siamo davanti a tre edifici sacri rurali di origine altomedievale ma ricostruiti nel XII secolo in stile romanico. Più in basso, dove vengono captate e convogliate le acque dell’Acquedotto Vasariano concluso nel 1603, sono visitabili Molinelli e Cognaia, altri due luoghi del cuore di molti aretini immersi nella natura. Un cenno a parte merita il monumento sistemato a Poti nel secondo Novecento, dopo che venne conclusa la nuova via panoramica. Il grande marmo, oggi illeggibile, celebrava lo spartiacque tra Tevere e Arno e consisteva in una stele che da una parte aveva una testa di lupa e dall’altra una testa di leone in bronzo, a simboleggiare le due principali città legate ai due fiumi: Roma e Firenze.

Purtroppo l’opera fu vittima del vandalismo più becero e già dai primi anni Ottanta sparirono le teste. La scritta “Intra Tevere et Arno”, presente anche nello stemma della Provincia di Arezzo, ha resistito qualche anno in più, ma oggi è solo un ricordo.

Un progetto visionario: l’albergo di Poti

Negli anni Trenta del secolo scorso partì il progetto di riforestazione della montagna, ma è nel secondo dopoguerra che Poti visse un periodo di valorizzazione, diventando una delle località di vacanza predilette dagli aretini, che d’estate l’affollavano per gite giornaliere o per soggiorni prolungati nel complesso turistico inaugurato nel 1954.

L’albergo pensione “Alpe di Poti”, oggi abbandonato, venne realizzato da Umberto Perrotta, dirigente della Società Industria Agricoltura di Roma. Egli aveva acquistato alcune aree della parte sommitale per farne un centro di villeggiatura, risistemando i sentieri, piantando quindicimila piante e costruendo pure delle villette prefabbricate e una chiesa. Il complesso alberghiero divenne una zona di relax e per sfuggire alla calura estiva quasi a chilometro zero, in un’epoca in cui erano ancora pochi quelli che si potevano permettere i lunghi viaggi. A poca distanza sorse anche un villaggio per le colonie estive dei bambini, gestito dalla congregazione delle Piccole Ancelle del Sacro Cuore, mentre l’ottima acqua oligominerale che sgorgava dal rilievo, in località Fontemura, venne imbottigliata dall’omonima società per finire nelle tavole degli italiani. Anche di questo stabilimento, fallito nel 2002, oggi rimane solo una struttura fatiscente che attende di essere bonificata.

La montagna degli aretini da rilanciare

Il legame degli aretini con l’Alpe di Poti è ancora forte. Meta prediletta di scampagnate, passeggiate, escursioni, trekking e itinerari in bici o moto, dopo anni di spopolamento e declino l’altura sta vivendo una fase di riscoperta e valorizzazione dal punto di vista naturalistico. Ne sono prova anche le iniziative degli ultimi mesi, come quella promossa dal patron di Arezzo Wave, Mauro Valenti, per riportare le persone sul monte attraverso camminate ed eventi, sensibilizzando così le istituzioni al recupero dei sentieri e degli edifici presenti.  Il futuro del turismo ambientale di Arezzo, settore in costante crescita, dovrà passare necessariamente anche dalla riqualificazione di montagne e colline che coronano la città, di cui Poti rappresenta una delle punte – o sarebbe meglio dire cime – di diamante.